Non erano passate nemmeno due settimane dalle bombe di Roma e Milano del 27 luglio 1993 che ai massimi vertici dell’Antimafia era già scattato l’allarme. «Togliere il 41bis ai mafiosi significa intavolare una tacita trattativa». Nonostante questo, invece, dal carcere duro nel novembre dello stesso anno sarebbero usciti quasi 400 “uomini d’onore”. E tutto nel massimo silenzio. Tacitamente, appunto. «Esame analitico delle stragi - recita l’intestazione - Valutazione e ipotesi investigative». Sono 24 pagine firmate dall’allora capo della Dia Gianni De Gennaro, un’analisi che parte dalle stragi del 1992 e arriva a ridosso della decisione dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso di non rinnovare il carcere duro a centinaia di mafiosi. «È chiaro - si legge a pagina 14 - che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione del 41bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla “stagione delle bombe”». Quel cedimento, per la Dia, era sinonimo di trattativa: «Per i capi mafia c’è l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le istituzioni ad una tacita trattativa». È la pista investigativa oggi seguita dalle procure di Palermo e Caltanissetta, secondo cui il carcere duro fu uno dei punti su cui venne condotta la trattativa tra boss e uomini di Stato.
Il rapporto della Dia, inviato dall’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino al presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante, è stato recuperato nell’archivio della commissione, che lo ha desecretato il 20 luglio scorso. Del tentativo da parte della mafia di arrivare a una trattativa parla anche un altro documento - rinvenuto sempre all’Antimafia - compilato dallo Sco della Polizia nel settembre ’93: «L’obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere ad una sorta di trattativa con lo Stato per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa nostra anche canali istituzionali». Entrambi i rapporti si avvalgono di fonti interne a Cosa nostra in libertà o informatori detenuti al 41bis che ancora non sono diventati collaboratori di giustizia. Nelle 24 pagine firmate De Gennaro c’è di più: si parla del delitto Lima e della strage di Capaci come momenti di un’unica strategia «difensiva» in un momento in cui l’organizzazione era stata messa alle corde dalle politiche di contrasto e dalle conferme in Cassazione degli ergastoli del maxiprocesso. Ma quel sangue denunciava un patto tradito «con quei settori del mondo politico che avevano deluso le aspettative» e serviva «a ricercare nuovi interlocutori con i quali stabilire intese e stringere alleanze» vitali per la sopravvivenza di Cosa nostra. Messa in gravissima difficoltà, scrive la Direzione investigativa antimafia, «dalla sempre più efficace risposta investigativa e dalla costante determinazione mostrata da governo e parlamento nel garantire l’esecuzione delle pene detentive con adeguato rigore».
Con l’omicidio Borsellino invece, secondo gli analisti, è avvenuta una saldatura «di obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di Cosa nostra». Una strage, quella del 19 luglio, apparentemente priva «di un’effettiva necessità, troppo ravvicinata a Capaci, non giustificata da particolare urgenza». Termini che hanno fatto rabbrividire gli investigatori nisseni, che indagano ancora sull’eccidio di via D’Amelio, perché confermano le recentissime acquisizioni: Paolo Borsellino era a conoscenza dei contatti tra Vito Ciancimino, portavoce di Provenzano, ed esponenti delle forze dell’ordine, aveva individuato alcuni “traditori” tra uomini dello stato e all’interno di Cosa nostra era stato percepito come «un muro, un ostacolo alla trattativa in corso».
La nota della direzione investigativa antimafia è chiara: le bombe della primavera estate del 1993 erano la reazione «alla perdurante volontà del governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza». Perché allora - si chiedono oggi i magistrati siciliani - quell’allarme non venne recepito ma invece si scelse di “flettere” e accettare il ricatto delle bombe? «È stato - come ha detto l’attuale presidente dell’Antimafia Beppe Pisanu – il prezzo per chiudere la stagione delle stragi?». Ci fu davvero sull’applicazione del 41bis una tacita trattativa tra Cosa nostra, come affermava 19 anni fa l’appunto della Dio? Appaiono così due partiti, quello della fermezza che nonostante le bombe non voleva cedere sulla legislazione antimafia e quello invece che su alcuni punti, come sul 41bis, iniziò ad attivarsi per limitarne fortemente l’applicazione, con il fine nobile di «evitare altre stragi», come ha ammesso recentemente l’ex ministro Conso. Di certo la drastica riduzione dell’utilizzo del 41bis è rimasta “segreta” fino a quando le inchieste di Palermo e Caltanissetta non hanno riaperto il file dimenticato sulla trattativa. Ma “il dialogo” sul 41bis avvenne pubblicamente: ad ogni rinnovo del carcere duro corrispose una bomba, da Firenze, a Roma a Milano. Fino a quando, era il novembre 1993, Conso e con lui i suoi più stretti collaboratori, decisero di far uscire dai circuiti speciali 334 mafiosi. Da allora, sarà un caso, Cosa nostra decise di far tacere le armi. E tra il partito della fermezza e i boss sanguinari come Totò Riina, vinsero quelli della “trattativa dolce”.