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04/12/2022 04:55:00

Scrive Filippo, sul nostro articolo "Il ministro, l'Umiliazione"

Caro direttore, leggo volentieri la Rubrica che il suo giornale ha affidato a Giuseppe Prode. Ho finora trovato i suoi articoli stimolanti, ricchi di interessanti spunti, molti motivi di riflessione a tal punto da indurmi a scrivere la presente nota per manifestare il pensiero che su di essi mi sono fatto. In particolare sulla vicenda che ha visto come protagonista il ministro della Pubblica Istruzione e del Merito, Giuseppe Valdatara, di cui si sono, come noto, abbondantemente occupate la stampa e la televisione, a seguito della sua esternazione. Se posso dire la mia sul suo conto, non è per il tono, la postura, l’albagia, il luogo e il mezzo con cui egli ha accompagnato le sue discutibili e inquietanti espressioni nei confronti degli studenti e della scuola, quanto per le considerazioni e le argomentazioni, puntuali e incisive, svolte dal curatore della Rubrica, che io sottoscrivo in pieno.

Devo però aggiungere che a sollecitarmi a scrivere questa nota è stato in gran parte il riferimento fatto nell’articolo “Il ministro, l’Umiliazione” a Christian Raimo, il quale ha scritto un libro intitolato L’ultima ora – Scuola, democrazia, utopia, che sono andato subito a consultare in libreria. Del libro non solo mi ha colpito la copertina, che riproduceva un foglio di un quaderno a righe della quinta elementare bruciacchiato al centro, ma anche il tratto autobiografico dello stesso autore riportato all’inizio del libro: “Sono figlio di un operaio, che in trentott’anni nella stessa azienda è diventato un quadro e poi dirigente e di un’insegnante; mentre i miei nonni sono stati contadini, casalinghi, donne delle pulizie, guardie forestali, contrabbandieri, soldati. La mia emancipazione culturale, sociale, politica è stata tutta o quasi tutta determinata dalla scuola pubblica e dall’Università pubblica, così è stato per i miei genitori, così non è stato per i miei nonni durante il fascismo. Anche per questo per me la scuola democratica pubblica, oggi sotto attacco, in molti modi, è un tesoro da tutelare”.

Pensate cosa potrei dire io sulla scuola, non solo su quella pubblica, ma anche sulla scuola dell’obbligo. A questo punto mi permetto di fare anch’io una breve nota autobiografica per chiarire meglio il mio atteggiamento nei confronti della scuola e l’istruzione nella loro complessità storica e culturale del nostro Paese: “Sono nato in una famiglia di contadini nella contrada Berbaro di Marsala. Lì non esisteva la scuola media e recarsi in città non era una cosa semplice. Io ero il terzo di quattro figli e a me piaceva andare a scuola. E incontrare le mie compagne e i miei compagni e gli insegnanti era quello che in quegli anni desideravo di più. Ma un mese prima che finisse la quinta elementare, la maestra ci disse che alcuni di noi potevano proseguire le scuole medie e altri no.

Fra quelli che non potevano continuare c’ero anch’io. Non perché non fossi “capace” e “meritevole”, ma perché dovevo aiutare mio padre in campagna. Durante la mia adolescenza non sono mai riuscito a rassegnarmi a questo terribile ingiusto divieto etico e giuridico e il solo pensare che per me non ci sarebbe stata più la possibilità di studiare era uno dei più grandi, insopportabili motivi di afflizione e di sofferenza. Fino a quando non mi chiamarono per la leva militare obbligatoria. Due giorni dopo che avevo preso servizio a Roma, un sera, passeggiando con i miei commilitoni per le strade della Capitale in libera uscita, vidi dei manifesti ovunque, che indicavano la possibilità di frequentare dei corsi accelerati per il recupero degli anni di scuola perduti. Da quel momento non pensai ad altro.

Inizia così un’affascinante avventura che, sebbene irta di difficoltà di ogni tipo, da quello economico a quello del tempo a disposizione per studiare le materie di tre anni, mi iscrissi a un corso serale che frequentai con entusiasmo, con grande impegno e ottimismo: ero sicuro di potercela fare. Nella sessione di ottobre dello stesso anno conseguì la licenza della terza media, che fu un traguardo straordinario per me ma anche per i miei genitori che si sentirono risarciti del danno che mi avevano arrecato quando, insieme alla maestra delle elementari, cercarono, loro malgrado, di convincermi che non potevo andare a scuola a Marsala. Quella fu la tappa decisiva della mia vita. Da allora fra esami e concorsi non ho smesso più di studiare, così come non ho smesso più di battermi affinché la scuola debba essere per tutti e una delle cose più importanti della vita sia di ciascuna singola persona e che di ogni comunità che voglia sentirsi civile, libera e democratica. Mi sono laureato in Economia e commercio e poi anche in Giurisprudenza. Ah! Dimenticavo di dire che qualche anno prima di essere stato estromesso dalle aule scolastiche della Repubblica italiana era entrata in vigore la Costituzione che all’articolo 34 recita: “La scuola è aperta a tutti, l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. Che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

Filippo Piccione