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17/09/2020 06:00:00

Esce oggi il nuovo libro di Nino De Vita. Trevi: "Un bene da valorizzare"

di Marco Marino

Quando Maria Luisa Spaziani fu invitata a costruire un’autoantologia delle sue poesie, scrisse dei rischi cui facilmente un autore poteva andare incontro mettendo insieme il lavoro stratificato di tanti anni di composizione: «Si tratta di riandare dai tempi della cera vergine a quelli della maturità cosciente, rischiare di confondere il tono di eventi remoti con l’aura di storie recenti».

Il rischio paventato dalla Spaziani di sicuro non riguarda la nuova autoantologia poetica di Nino De Vita, Il bianco della luna. Antologia personale 1984-2019 (Le Lettere; da oggi in libreria), che dell’autore di Cutusìu mostra un percorso lineare e costante. È un’opera, quella di De Vita, animata da un unico inesauribile rovello compositivo, capace di restituire un senso di unità e struttura che lasciano davvero pensare alla creazione di un universo pazientemente desiderato e disegnato.

Il bianco della luna non è solo un’ulteriore conferma dell’importanza della produzione del poeta marsalese nel panorama letterario nazionale, ma è anche il principio di una nuova collana di poesia contemporanea, “novecento/duemila”, curata da Raoul Bruni e Diego Bertelli, che arriva tra gli scaffali delle librerie insieme ad altre due interessanti sillogi, I fiaschi di Francesco Targhetta e Le istruzioni del gioco di Roberta Durante.

Adesso, per entrare meglio dentro quell’universo lineare e costante dei versi di De Vita, abbiamo voluto parlarne con il critico letterario Emanuele Trevi, prefatore del volume.

Come ha conosciuto la poesia di Nino De Vita?

Nel modo migliore: ho conosciuto la poesia di Nino De Vita grazie a un amico che ha capito che mi sarebbe interessata. È un amico e un grande critico, si chiama Massimo Onofri, che mi ha messo in contatto sia con la poesia sia con la persona. Penso che i libri più importanti che si leggono nella vita non provengano dai supplementi culturali, ma dai consigli degli amici, dalle persone che sanno cosa davvero ci può piacere.

Una delle sue prime recensioni a De Vita, dedicata ai Cùntura, le aveva dato modo di scrivere dell’autenticità della letteratura dialettale in Italia. Potremmo riprendere le sue posizioni?

Seguo sempre un principio estetico generale: se qualcosa può essere perfettamente espressa nella lingua d’uso, comincio ad avere dei dubbi. Perché, allora, tanto vale dirla in italiano, non c’è bisogno di usare il dialetto. È un aspetto folkloristico che mi suscita poco interesse. Non ho il culto delle radici, non mi commuove. E quindi non mi commuovono neanche delle cose considerate grandissime come le poesie friulane di Pasolini, perché sono egualmente belle anche in italiano: se l’è tradotte lui, e in qualche maniera ha condannato il suo lavoro…

E le poesie di De Vita?

Le poesie di De Vita mi colpiscono molto, in quelle c’è un abisso tra la traduzione e il suo marsalese. Bisogna considerare un aspetto importante: nei suoi testi De Vita si riferisce sempre ad una situazione narrativa, c’è ad esempio un vecchio che racconta qualcosa a lui bambino. Concentrarsi sulle situazioni e sulle condizioni del racconto, di conseguenza lo porta a riflettere sulla questione dell’uso della voce, che per me è il fondamento di ogni letteratura. Paradossalmente, io che sono uno scrittore in prosa e in lingua, cerco sempre di imitare la mia voce.

Cosa significa “imitare la voce”?

Significa che il discorso scritto non si limita semplicemente al suo argomento. Per me la bellezza in letteratura non dipende dal fatto che un testo sia scritto bene o male, ma che riesca a evocare il suono della voce. L’oralità in letteratura spesso, e ingenuamente, è confinata al discorso diretto, alle virgolette. Invece l’oralità deve permeare tutto, ricreare uno spazio e una situazione. Perché è bello Cuore di tenebra di Conrad? Non è la storia, ma il fatto che c’è qualcuno che la racconta agli amici. Ecco, questa cosa Nino ce l’ha bene in testa, ed è così che ogni storia diventa una storia umana. Tutto ciò lo rende diverso da moltissimi autori, e gli ha offerto un filo d’oro di autenticità.

Nella sua prefazione a Il bianco della luna, per parlare della poesia di De Vita, usa l’aggettivo “kafkiano”. Perché?

Nei suoi Cùntura la morale non è mai esplicitata. Se andiamo ad analizzarli i suoi racconti spesso sono incompiuti, spesso sfumano. Non è come nelle favole di Jean de La Fontaine, lì alla fine l’apologo restituisce, tramite gli animali, la morale che dovrebbero perseguire gli uomini. Per De Vita è diverso, per lui le storie funzionano in quanto il lettore le completa nella sua testa e gli attribuisce un senso: lui non ce lo mette mai un senso. E questo è un atteggiamento kafkiano. L’aspetto più ovvio della parola kafkiano è legato all’incubo, al processo, alla burocrazia. Non è solo quello, però. Kafka è innanzitutto lo scrittore che ha dimostrato che non spetta all’autore esplicitare il senso delle sue storie, perché la fine di un racconto va completata nella testa del lettore.

Vorrei soffermarmi su altri due aggettivi. Non crede che l’etichetta di poeta “dialettale” sia stata per De Vita una sorta di stigma che in qualche modo ha sminuito la sua opera? Non sarebbe meglio definirlo poeta “mediterraneo”?

Secondo me le etichette sono ambivalenti, nel senso che da una parte ghettizzano e dall’altra rendono riconoscibile quello che fai. Quindi nemmeno bisogna essere ingrati alle generalizzazioni. Credo che il vero discrimine sia quello di capire quali sono gli elementi insostituibili di un’immagine del mondo: per De Vita quell’elemento insostituibile è la sua pronuncia, la lingua di Cutusio, che crea Cutusio e il suo universo poetico. Allo stesso modo, ad esempio, il napoletano di Giambattista Basile crea Basile, cioè crea quella visione del mondo che rinnova completamente il codice della fiaba. E questo è raro. Lo si può dire pure del milanese di Franco Loi. Lo si può dire di pochissimi.

In fin dei conti, i veri poeti sono pochi.

Sì, e non è una cosa imputabile esclusivamente alla letteratura dialettale. Quanti poeti in lingua italiana ci sono che vale la pena di leggere? Pochissimi. Quanti narratori? Pochissimi. Purtroppo la letteratura di per sé produce una massa di mediocrità e poche persone che spiccano, quindi quando incontriamo una persona che spicca, come De Vita, io, Massimo Onofri, Silvio Perrella e molti altri critici, la difendiamo a spada tratta perché è come un bene dell’Unesco, una cosa che va valorizzata in ogni maniera.

[All'interno dell'articolo, il ritratto di Nino De Vita è una fotografia di Leonardo Alberto Caruso]