Pantelleria ha l'alito della Sicilia e il sapore del Maghreb: in un riuscito quanto incredibile equilibrio geo-economico, più vicina alla costa tunisina - dove si andava a scuola un tempo o a fare acquisti - che a Trapani - da dove vengono gli insegnanti e i sacerdoti - l'isola è l'ultimo avamposto italiano; eppure, è già Africa.
Giosue' Calaciura in 'Pantelleria. L'Ultima Isola' (Laterza, pp. 90, euro 12), la racconta in tutte le sue contraddizioni questa "ultima isola", divisa tra inferno e divino; fenicia, romana, spagnola, bizantina, araba, normanna; la si chiami Yrnm o Cossyra, Qawsra o Bent el-Rhia.
Isola per modo di dire. Tanto mare e nemmeno un pescatore vero, perché, benché nel Mediterraneo, Pantelleria è battuta da venti fortissimi ed è circondata da un mare spesso ostile. I panteschi dunque o la abbandonavano per emigrare negli anni di crisi oppure tentavano di addomesticarla, coltivandola, in perenne colluttazione con la pietra e l'ossidiana. Sottraevano terra alle spigolosità vulcaniche per produrre capperi - non più di un chilo e mezzo per ciascuna pianta e non più di duemila piante per ettaro - e Zibibbo, ridicolmente pagato 28 centesimi al chilo, perché le inderogabili leggi del capitalismo hanno globalizzato anche il sudore e le mani callose dei contadini panteschi. Globalizzazione anche etnica: oggi, su ottomila abitanti, mille rumeni combattono con la pietra, il vento e il freddo perché i vigneti resistano. I rumeni sono gli unici immigrati: il mare è così forte da queste parti che i disperati dell'Africa fanno rotta sull'altra ultima isola, Lampedusa. Chi ci ha provato ad approdare tra Khattbuale e Cala Tramontano, tra Balata dei Turchi e Punta di Suvaki, è colato a picco contro gli scogli.
Eppure questo luogo di "agghiacciante bellezza", come decretò Truman Capote, è meta turistica di vip internazionali, che hanno dato una impronta diversa all'isola, molto distante dallo stile autoctono. Nel tentativo di passare inosservati si sono adattati all'architettura locale, i dammusi, trasformandoli però secondo i canoni dell'opulenza e della comodità. E questi sono diventati perle costosissime (tuttavia non risparmiate dall'erosione di vento e sale). Dunque, ci viene il "Fotografo" e lo "Stilista", carovane di modelle, Sting e - ci venne - il grande Marquez, il quale raccontò l'isola e gli isolani in successivi, deliziosi racconti. "Ma dove mi hanno portato?" pare che avesse chiesto alla moglie, Mercedes, quando si aprì il portellone del Fokker giallo pappagallo allunato (è il termine che usa Calaciura) al piccolo e pericoloso scalo di Margana. Secondo Calaciura, "si sentiva ai confini del mondo dove la realtà perde concretezza e l'immaginazione l'acquista, un limite tracciato di fretta e per approssimazione perché gli imbianchini della Creazione non avevano avuto il tempo di passare una mano di colore, lasciando tutto nel nero antracite delle materie prime".