Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
11/11/2018 06:00:00

Quell'antisovranista di Dante Alighieri

Molti anni fa conobbi una ragazza a cui era toccato in sorte di chiamarsi Piscia. Di cognome, naturalmente. Eppure lei, orgogliosa della sua identità famigliare, di quel cognome menava un gran vanto, e quando si presentava a qualcuno per la prima volta, nello stringergli la mano diceva con voce squillante: “Piacere, Piscia”. Onore all'autostima e al senso della dignità personale! Chiamarsi con uno dei tanti cognomi bizzarri di cui abbonda l'anagrafe italiana (Porco, Maiale, Bastardo, Pattume, Mastronzo, Ficarotta, e tanti altri) non è certo un disonore, per carità. È solo una sventura semantica.

La faccenda però si complica, e non fa più ridere, quando l'orgoglio delle proprie identità (sesso, colore della pelle, nazione, regione, provincia, città, quartiere, stirpe, famiglia, clan, tribù, religione, fede politica, tifo calcistico, gusti alimentari e chi più ne ha più ne metta) si scalda ben oltre i limiti della temperatura naturale, trascende in febbre alta e si trasforma in fanatismo identitario. È allora che cominciano i guai. E le violenze, i conflitti, le tragedie, le guerre infinite.

Un esempio su tutti: si va tanto fieri delle nostre “radici cristiane”. Ma che senso ha davvero “essere cristiani”? Gesù disse soltanto: fate come me, seguite il mio esempio. Non pretese altro. Ma nei secoli successivi la sua esortazione fu letteralmente travolta, sommersa, oscurata da un mare di dogmi, di riti, di idolatrie, di osservanze esteriori che avevano il compito di rendere visibile l'identità del “vero cristiano”. L'esteriore prese il sopravvento sull'interiore, il materiale cancellò lo spirituale, il falso uccise il vero. Divenne un obbligo odiare e sterminare i “diversi”. E per chiunque osasse ispirarsi unicamente al monito del “seguite il mio esempio”, dando poca importanza alle giaculatorie e alle genuflessioni, la Santa Inquisizione preparò la gioiosa macchina da guerra dei roghi e delle torture. Margherita Porete, acutissima teologa, fu arsa viva a Parigi nel 1310 per avere sostenuto che “la verità del credere consiste nell'essere quello che si crede”, e non nel “credere di essere quello che si dice di credere”. Il mistico Miguel de Molinos, che metteva in guardia dalla “voce diabolica” che ci fa scambiare il falso esteriore col vero interiore, fu gettato nel 1685 a marcire in una lurida gattabuia.

E Dante Alighieri? Lui sì che su questo tema può darci una lezione stupenda. Proprio lui, il padre della nostra lingua nazionale, nel trattato che a quella lingua volle dedicare (il De vulgari eloquentia), scrisse parole che suonano come una luminosa condanna del fanatismo identitario. Dopo aver dichiarato tutto il suo amore per Firenze e per il suo idioma, confessò che, dopo avere studiato a fondo tutto ciò che ai tempi suoi si conosceva riguardo al mondo, era giunto alla convinzione che: “vi sono molte regioni e città più nobili e più deliziose che la Toscana e Firenze, e che vi sono molte stirpi e popoli usanti lingua più piacevole e più utile che gl'italiani”.

Incredibile, vero? (E non è una bufala. Verificare: De Vulg. Eloq., I, 6). Voi pensate che Dante avrebbe mai pronunciato una frase scivolosa del tipo “prima gli italiani”? Ma nemmeno per sogno. Senza essere nemmeno un “radical-chic mondialista”, Dante avrebbe riso a crepapelle dell'attuale fanatismo sovranista. Perché Firenze e l'Italia gli stavano stretti. Lui pensava in grande, si sentiva già, sette secoli fa, cittadino del mondo. Guardava dall'alto quelle misere lande gremite di gente miope e piccina, quella povera “aiuola che ci fa tanto feroci”.

Sélinos