Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
23/07/2021 06:00:00

Le violenze nelle carceri/1. Quando la polizia diventa l'anti-Stato

 È il 6 aprile 2020 e, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, si attua una grave spedizione punitiva a danno dei carcerati. Doveva essere una “perquisizione straordinaria”, si è trasformata in una “orribile mattanza”. In tre puntate il racconto di quello che è successo nel carcere Campano e perchè, 20 anni dopo il G8 di Genova, potrebbe rappresentare una delle più gravi violazioni dei diritti umani nel nostro Paese.

“L’Ue è contro tutte le violenze. So che questa è una competenza nazionale ma ci aspettiamo una inchiesta trasparente e indipendente per capire cosa sia davvero successo. È dovere delle autorità nazionali proteggere tutti i cittadini dalla violenza. In ogni circostanza e quindi anche durante la detenzione”. A parlare in questi termini è Didier Reynders, Commissario Ue alla Giustizia, che aggiunge: “Dobbiamo tutti ricordarci che la detenzione non può essere una tortura”. Il Commissario, dunque, si riferisce alle violenze subite da alcuni detenuti a opera di chi avrebbe dovuto badare alla loro rieducazione e risocializzazione. È quanto accaduto in un Paese democratico, il nostro.

Come riportato nelle inchieste effettuate da Nello Trocchia sul quotidiano “Domani”, quella che si è consumata il 6 aprile 2020 nell’istituto penitenziario “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, è stata tra le più gravi violazioni dei diritti umani del nostro Paese, effettuata sulla pelle dei detenuti da parte della polizia penitenziaria. Un pestaggio di massa premeditato contro persone inermi e disarmate (come confermato dalle carte dei magistrati), organizzato nei minimi dettagli e prontamente sottoposto a riusciti mezzi di depistaggio.

“Non c’è attenuante che regga: lo stress, le proteste dei giorni precedenti, il virus. Quella che abbiamo visto è una pratica pianificata di violenza machista di massa che coinvolge decine e decine di poliziotti. È qualcosa che ci porta dentro l’antropologia della pena e della tortura”, ha riportato l’Associazione Antigone, che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie del sistema penale e penitenziario.


Questa grave e preoccupante pagina della storia democratica italiana è facilmente leggibile come una punizione per quanto accaduto nei giorni precedenti in molte carceri italiane,
incluso questo preso in questione. A marzo dello scorso anno, infatti, c’erano state delle proteste a causa delle restrizioni previste per l’emergenza Covid-19 che avevano causato la morte di 14 detenuti per intossicazioni da metadone e psicofarmaci sottratti negli ambulatori. La situazione era aggravata dalla gestione del Dap allora guidato da Francesco Basentini, poi dimessosi a seguito delle polemiche. A questo si aggiungevano la scarcerazione di molti boss mafiosi e la carenza, all’inizio della pandemia, di dispositivi di protezione, come le mascherine, di biancheria e acqua potabile. Vi è una prima protesta e, in seguito, alla sezione Tamigi (dove ci sono i reclusi con reati associativi), il primo caso di contagio. Prima delle 20, orario di chiusura delle celle al reparto Nilo, alcuni detenuti si rifiutano di rientrare, rimanendo in corridoio. In alcune sezioni del reparto vengono poste, al di fuori delle celle, alcune brande da usare come barricate per impedire agli agenti l’accesso ai corridoi. Circa 22 persone, infatti, nel pomeriggio avevano chiesto di parlare con i responsabili del carcere ma non avevano ricevuto alcuna risposta. Nella notte, a seguito di un confronto rassicurante, la situazione migliora. Le barricate vengono rimosse, i corridoi e le celle riordinati.


Il giorno successivo, Pasquale Colucci, comandante del Nucleo Provinciale Traduzioni e Piantonamenti del carcere di Secondigliano e comandante del “Gruppo di supporto agli interventi” istituito a inizio pandemia, invia una relazione ad Antonio Fullone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, secondo la quale la situazione sembrava precipitare, con la presenza di detenuti che minacciavano il personale con olio bollente e oggetti di diverso genere. Le versioni derivanti dal confronto delle interrogazioni parlamentari, delle fonti ufficiali e delle testimonianze sono evidentemente differenti. “Non è vero, noi non avevamo niente, abbiamo solo subito, sono le classiche ‘pezze d’appoggio’ per giustificare gli abusi, ad alcuni detenuti hanno tagliato le barbe, il massimo dell’umiliazione”, ha dichiarato un ex detenuto che ha subito le violenze di quelle ore.


Il 5 aprile, durante la protesta, Antonio Fullone invia il seguente messaggio a Maria Parenti, vicedirettrice e, allora, reggente del carcere: “Mariella scusami, la situazione non si sblocca e allora l’unica scelta è quella di usare la forza. Tecnicamente è il direttore che impartisce l’ordine. Ovviamente puoi fare riferimento che viene dato di intesa con me”. In seguito, Fullone parla con Pasquale Colucci. Si afferma che il personale del carcere “è molto deluso” e che “si sono raccolti per contestare l’operato del comandante”.


Alle 5.24 del mattino a scrivere al provveditore è Gaetano Manganelli, commissario coordinatore della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Nel suo messaggio dichiara di non riuscire a contenere le proteste. “Prima di dover agire in fase repressiva io le sto provando tutte ma in questo è fondamentale la sua presenza…”, continua. Dai messaggi che si scambiano successivamente, sembrano sapere perfettamente quale sarà la fine. Alle 12.36, si dà appuntamento a tutti in una chat della polizia penitenziaria composta da 110 persone: “Entro le 15.30 in tuta operativa tutti in istituto. Si deve chiudere il Reparto Nilo x sempre, u tiemp re buone azioni e fernut. W la polizia penitenziaria”. E, così, ha inizio uno dei più tragici abusi di potere del nostro Paese, un raid punitivo, paragonabile alla macelleria messicana della scuola Diaz di Genova durante le manifestazioni contro il G8, nel 2001.


Dopo le 13.30, Manganelli scrive a Fullone che, in realtà, non vi è stata alcuna rivolta e che “tutti i detenuti sono rientrati dai passeggi”. Nonostante questo, la spedizione si farà lo stesso. “4 ore di inferno…per loro”, dirà Colucci a un suo collega. I registi di questa pagina buia della storia della democrazia italiana sono accusati dai pm di aver depistato le indagini con fotografie “oggetto di manipolazione informatica” per “creare ulteriori elementi calunniatori nei confronti dei detenuti”. Nelle comunicazioni di notizie di reato scritte dopo la rivolta del 5 aprile, infatti, gli uomini che avrebbero dovuto proteggere i detenuti scrivono che per ristabilire l’ordine hanno dovuto bonificare le celle dove sono stati rinvenuti oggetti come pentole piene di liquidi bollenti, bombolette di gas pronte per essere lanciate e spranghe di ferro utilizzati dai detenuti per colpire i poliziotti. Oggetti che non sono mai esistiti e situazione creata ad hoc per manipolare l’accaduto. “Con discrezione e con qualche fidato fai delle foto a qualche spranga di ferro…In qualche cella in assenza di detenuti fotografa qualche pentolino su fornellino anche con acqua”, scrive, dunque, a un collega Anna Rita Costanzo, commissaria responsabile del reparto Nilo. Sulle foto, inoltre, si è proceduto alla modifica delle date per farle apparire come scattate il 6 piuttosto che l’8.

 


 

“Ci hanno distrutti”, afferma un ex detenuto che ora, da uomo libero, ricostruisce i fatti. “Mi hanno interrogato, qualche mese fa, e mi hanno mostrato i video, in quelle immagini mi sono rivisto, ho rivissuto quel giorno”, ha continuato, “mi creda, non ho mai preso così tanti colpi, manganellate e botte in vita mia e non avevamo fatto nulla”. Come si può vedere dalle immagini delle telecamere di videosorveglianza si è trattato di un’azione impressionante di forza e violenza vendicativa a danno di corpi indifesi e deboli.
Nel corridoio delle celle sono 20 contro 1. Nel vano scala sono 3 contro 1. Nell’area socialità tutti sono in ginocchio, con la faccia contro il muro. A compiere la perquisizione arbitraria (più che straordinaria) sono circa 300 agenti tra la polizia penitenziaria del carcere e molti esterni (sovrintendenti, ispettori, commissari e appartenenti al Gruppo di supporto agli interventi). Nelle loro chat, le finalità della mattanza sono chiare: abbattere i detenuti come vitelli (considerare i detenuti come bestiame da domare è tipico dello slang carcerario per cui vengono chiamati anche “camosci”), chiavi e piccone in mano, chiusura permanente del reparto Nilo (in cui sono rinchiusi i detenuti con problemi psicologici o di tossicodipendenza), “non passa nessuno”, “i ragazzi sanno cosa fare”, colleghi di rinforzo pronti ad abbattere qualora “3 cretini” uscissero dalla cella per fare qualcosa, “W la polizia penitenziaria”.


“Io mi sono attenuto alle indicazioni. E dopo qualche minuto sono stato portato nel corridoio, con la testa contro il muro. E le mani alzate. Diversi detenuti si trovavano nella stessa posizione: erano nudi, però. E li colpivano con i manganelli sulle gambe e sui glutei. Nel corridoio su cui si affacciano le celle della sesta sezione vi erano tanti agenti penitenziari che avevano formato una sorta di corridoio umano, costringendo i detenuti ad attraversarlo, colpendolo con schiaffi, pugni e manganellate. Io sono stato spinto e incanalato nel corridoio. Io dovevo passare di là e ognuno di questi mi doveva dare una mazzata”, ha raccontato uno dei detenuti.


Come dimostrano i filmati che gli indagati erano fermamente convinti sarebbero spariti ma che, invece, sono stati recuperati grazie al lavoro e alla prontezza dell’inchiesta giudiziaria e all’operazione dei carabinieri nelle diverse aree del carcere, le violenze vengono perpetrate curando ogni singolo dettaglio. La scena che riprende l’area di socialità mostra un biliardino rovesciato al centro, un tavolo da ping pong e alcune sedie ai lati, e alcuni poliziotti in tenuta antisommossa. Tutti i detenuti sono obbligati a inginocchiarsi con le mani dietro la testa e il capo appoggiato al muro. Vengono disposti lungo la parete, sono almeno in 30. Ora, umiliati, vengono invitati a uscire a colpi di schiaffi e manganelli. Uno di loro resta inginocchiato: ha ricevuto un colpo nella pancia, non riesce ad alzarsi, lo soccorrono continuando a picchiarlo, prendendolo per capelli e intimandogli di stare zitto mentre, zoppicante, cerca di camminare.


Un’altra camera inquadra un pianerottolo posizionato tra due rampe di scale. I poliziotti penitenziari si alternano e aspettano al varco i detenuti per colpirli. Non risparmiano nessuno. “Ricordo che c’era anche un detenuto sulla sedia a rotelle. Anziano e diabetico. Hanno colpito con il manganello anche lui. Di questa violenza c’è il video, l’ho visto”, ha dichiarato un ex detenuto che ha denunciato i fatti. “Le guardie manganellavano quel disabile e gli urlavano: ‘ti mettiamo il pesce in bocca, non conti nu cazzo qua dentro e neanche fuori’”, ha continuato. Quest’ultimo ha riconosciuto la commissaria di reparto: “Guardava mentre ci massacravano, ma non interveniva, un ragazzo detenuto di vent’anni mi ha detto ‘poteva essere mia madre, ma non ha mosso un dito’”.

(Continua...)


 

Giorgia Cecca