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24/07/2021 06:00:00

Le violenze in carcere/2. Mattanza e insabbiamento

 È il 6 aprile 2020 e, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, si attua una grave spedizione punitiva a danno dei carcerati.

Doveva essere una “perquisizione straordinaria”, si è trasformata in una “orribile mattanza”. Continuiamo il racconto di quella che è stata definita una delle più gravi violazioni dei diritti civili in Italia negli ultimi anni (qui la prima parte). Una vera e propria mattanza, sotto gli occhi delle telecamere che hanno ripreso detenuti malmenati dai poliziotti. Il racconto di quelle violenze, in questa puntata, sembra arrivare da paesi autoritari, e non certo da una democrazia avanzata.


C’è un corridoio, le celle sono disposte sui lati: i poliziotti si schierano a destra e sinistra così da poter colpire meglio i detenuti mentre sono costretti a passare in mezzo. Uno di loro riceverà una testata da un picchiatore in divisa dotato di casco. Al secondo piano lo scenario non cambia: i poliziotti aspettano i detenuti per prenderli a testate e manganellate. Alcuni sono trascinati a terra e, in alcuni casi, su un singolo detenuto si accaniscono anche in decine. Ogni due, tre secondi, una botta. Nel corridoio, la testa di un detenuto diventa un sacco da boxe: i secondini lo spintonano, gli danno sberle in testa e, quando spunta un collega che tenta di intromettersi, gli ordinano di non farlo. Evidentemente, il loro capriccioso divertimento è appena iniziato. Anche al terzo piano i detenuti da almeno due ore sono costretti a sfilare con le mani sulla testa.


“Mi hanno dato calci nelle costole e cazzotti in testa. Io mi mantenevo vicino al cancello e dicevo: ‘Basta, basta’. Mentre ero aggrappato tutte le 7-8 guardie che stavano intorno a me mi davano tutti le palate. Io mi mettevo le mani in testa. Mi picchiavano con cazzotti e manganelli. I calci. Ora ho le costole rotte. Mi dicevano: ‘Pezzo di merda infame, scendi giù insieme a noi. Ho pensato: questi mi vogliono uccidere”, ha dichiarato un altro detenuto. Nell’area socialità del terzo piano detentivo, due detenuti vengono spinti con la faccia contro la parete destra e presi a manganellate e schiaffi sulla schiena. Pur stando in piedi, si rannicchiano come a proteggersi. Gli elementi di arredo sono a soqquadro, un ragazzo viene trascinato lungo il pavimento, afferrato per il collo della maglia. Sparisce tra gli agenti. Al primo piano un agente con i guanti azzurri infierisce con il manganello contro la schiena e le gambe di un altro che ha osato girare il capo. C’è chi si appoggia a un armadietto, si accascia, sviene. Un agente gli dà un calcio alla gamba con un duplice fine: picchiarlo e verificare che non si tratti di una farsa per evitare i colpi. Vengono chiamati i soccorsi che gli praticheranno un massaggio cardiaco. Si riprenderà, per fortuna.


Le testimonianze dei carcerati che hanno subito violenza sono atroci:
“Dopo circa 10 metri dalla rotonda, sul corridoio del Nilo, verso il corridoio lungo che porta agli altri reparti, l’agente con il giubbino in pelle che stava dietro di me ha iniziato a picchiarmi con il manganello dietro la testa. Mi ha colpito la schiena, il bacino, le costole. E mi diceva: ‘Non hai capito ancora niente. Lo Stato siamo noi, e tu e tutti i tuoi compagni dovete morire. Oggi devi morire”. E ancora un altro: “L’ispettore di sorveglianza mi ha fatto l’occhio…Da dietro, mi colpiva. Con i pugni. Io gridavo: ‘Dai basta, per piacere, basta. C’ho paura”. Poi è arrivato uno e mi ha dato una testata con il casco integrale, si è buttato a peso morto. Ho perso i sensi. Mi sono accasciato. E hanno continuato a colpirmi”.


Nei giorni successivi, infatti, i reclusi hanno comunicato le violenze di cui sono stati vittime ad avvocati, famiglie, associazioni che si impegnano a tutelare i diritti degli stessi, a Samuele Ciambriello e a Pietro Ioia, garanti dei detenuti della Campania e di Napoli. “Ci hanno trasformato in prigionieri. Non ci vedo più, ho l’occhio gonfio”, ha riferito uno di questi. “Chi ha la testa rotta, chi ha perso i denti, mi hanno manganellato ovunque”, ha dichiarato un detenuto, in lacrime, a sua moglie. “Mi hanno fatto spogliare, e mentre mi abbassavo i pantaloni sono arrivati gli schiaffi, i calci”, ha ricordato un altro.

Tra le vittime, anche un morto. Si tratta di Hakimi Lamine. Tra i detenuti che dovevano essere puniti, in 15 vengono posti in isolamento e, dal padiglione Nilo, vengono spostati nel Danubio. Per giustificare lo spostamento, però, servono prove scritte che attestino violenza (e inesistente) resistenza alla perquisizione, causa di una punizione più dura. È necessario un dottore che dichiari il falso, cioè che le ferite presenti sui corpi dei ribelli sono, in realtà, una conseguenza della necessaria opera di difesa e contenimento delle guardie. Il dottore c’è, si chiama Raffaele Stellato e tradisce il giuramento di Ippocrate. Lamine, invece, è malato, soffre di schizofrenia e necessita di cure che, però, non riceve da un mese. Secondo quanto raccontato da un testimone, è stato pestato due volte, anche mentre veniva portato in isolamento. “Stava spezzato! Si vedevano segni neri come tubi, i tubi proprio. (…) Ho visto che era tutto sanguinante…vomitava sangue, andava sempre in bagno a vomitare sangue. Non me la dimentico più quella testa”, ha ricordato un testimone. Hakimi Lamine muore il 4 maggio in isolamento, neanche piantonato come di dovere della guardia penitenziaria in casi come il suo per evitare atti di autolesionismo. Secondo la procura di Santa Maria Capua Vetere, la morte è stata causata dallo stato di abbandono e dalla privazione della sorveglianza medica. Il giudice, però, ha rigettato questa impostazione. Nella sua ultima notte, Hakimi ha parlato con un detenuto affacciandosi dalla cella. “Salutami mia madre”, gli ha ripetuto per cinque volte.
Tra i detenuti maltrattati, però, non ci sono camorristi nonostante, quello di Santa Maria Capua Vetere, sia un carcere pieno di affiliati. Né sono presenti figure legate alla politica o all’imprenditoria criminale. Solo piccoli spacciatori, criminali, borseggiatori. E Ranieri, pregiudicato di Latina con un passato laterale nella Banda della Magliana. Gli affiliati danno regalie, conoscono, la vendetta può essere sempre dietro l’angolo.

 

 

“L’esperienza mi ha mostrato che, lì dentro, guardie e carcerati vengono in gran parte dallo stesso mondo, stessi svantaggi, stesse fragilità. Allora non dico: aprire le celle. Ma aprire le teste, gli sguardi. Investimenti formativi e continua manutenzione di quelle teste”. A sperare in questi cambiamenti è Gaetano di Vaio, attore e produttore. Ex detenuto per rapina e spaccio di droga. Ex pestato. “Spuntano persone buone in mezzo al più arido deserto”, afferma. “Era una domenica, una Festa della mamma, ma stavo in isolamento dopo un pestaggio. Quasi nudo, quando arrivavano, tu non ti potevi far scudo con nulla. Sento dei passi, sono sicuro che tornano a picchiarmi. Era invece un’altra guardia che, a costo di essere denunciato dai compagni, scende e mi porta un gelato. Quella cosa lì diventa la speranza a cui ti aggrappi. È grazie a quel gelato se sono rimasto in piedi”, ha continuato.


Un gelato offerto e salvifico che ricorda la cioccolata richiesta da Stefano Cucchi e negatagli, come potrebbe ricordare chi ha guardato “Sulla mia pelle”, il film di Alessio Cremonini a lui dedicato. Questi ultimi due casi, dunque, dimostrano come talvolta si preferisce sottrarsi a uno dei compiti della storia, che è anche quello di ricordare per non ripetere. Era il 2014 quando la Corte europea dei diritti dell’uomo condannava l’Italia per aver sottoposto i detenuti a trattamenti inumani e degradanti. Un concentrato di pugni, colpi di bastone, sputi e calci inferti, nel 2000, ai detenuti del San Bastiano di Sassari. Matteo Salvini, attuale leader della Lega, aveva descritto quel giorno come “di lutto perché erano stati trattati servitori dello Stato come delinquenti”. Nel carcere di Torino, invece, dalla primavera 2017 alcuni detenuti sono stati fatti denudare, riempiti di sputi, picchiati, invitati a picchiarsi con le loro mani, minacciati di altre violenze se non avessero dichiarato che era stato un altro detenuto a ridurli così. Si è a febbraio 2020 quando gli eventi della casa circondariale di Monza vengono iscritti come tortura. Un uomo veniva pestato dalla polizia penitenziaria. Nei giorni successivi, ad alcune vittime non è stata data la possibilità di telefonare alle proprie famiglie; molti sono stati i casi di minacce qualora avessero raccontato quanto accaduto realmente. Sono di questi giorni le indagini svolte per tortura presso il carcere di Modena. “Io urlavo e questi vedendo il ragazzo tunisino a terra cominciavano a prenderlo a botte per farlo svegliare. Io gridavo loro che stava male e che per me era morto e loro, dicendomi ‘stai zitto figlio di puttana, abbassa la testa’ hanno iniziato a picchiarmi”, ha dichiarato uno dei torturati. 

 (Continua...)

Giorgia Cecca