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25/07/2021 06:00:00

Le violenze in carcere/3. I diritti civili violati, 20 anni dopo Genova

 La terza e ultima puntata di un viaggio nel carcere dell'orrore. Della violenza nei confronti dei detenuti. Il racconto di quando uomini di Stato sono diventati anti-Stato, e hanno sospeso i diritti civili nel nostro Paese.


È il 6 aprile 2020 e, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, si attua una grave spedizione punitiva a danno dei carcerati. Doveva essere una “perquisizione straordinaria”, si è trasformata in una “orribile mattanza”. Ma nei giorni successivi la sospensione dei diritti di uno stato democratico non finisce. 

 


Dopo il 6 aprile, saranno tutti costretti alla rasatura quotidiana della barba, verranno vietati loro contatti con l’esterno e videochiamate con le famiglie. La conta si farà in piedi, con le mani dietro la schiena e lo sguardo basso. Il 9 dello stesso mese, un agente trova Motti, durante la conta, seduto a leggere la corrispondenza. Viene prelevato e portato a piano terra: verrà preso a schiaffi e pugni che gli causeranno un trauma cranico da percosse. Verrà caldamente invitato da due agenti a dichiarare che non è conseguenza delle aggressioni degli agenti ma di altri detenuti come lui. “Farai una brutta carcerazione e ti cito per diffamazione perché non hai niente. Guarda che qui devi stare 3 anni”, minacciano altri dieci poliziotti.
“Vogliamo parlare del Garante regionale della Campania, dei magistrati in forza alla procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e dei carabinieri al loro servizio. Vogliamo parlare di loro perché sono loro che, oggi, ci fanno avere ancora fiducia nelle istituzioni. Sono loro che danno splendente dimostrazione di quale sia il vero significato di un valore fondante la nostra democrazia: lo spirito di servizio in nome della Costituzione della Repubblica Italiana”, hanno scritto in un articolo pubblicato su “Domani” Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo.


Dopo le prime denunce dei detenuti (anche attraverso dei post sui social) e le repliche del Dap, infatti, era calato il silenzio su questa grave vicenda, interrotto solo l’11 giugno con un decreto di perquisizione verso 57 agenti della polizia penitenziaria. “Non si possono trattare come delinquenti i servitori dello stato, indegnamente indagati, visto che le rivolte non le tranquillizzi con le margherite, pistole elettriche e videosorveglianza prima arrivano e meglio è, oggi è una giornata di lutto”, aveva sbraitato Matteo Salvini a proposito della decisione della procura di Santa Maria Capua Vetere guidata dalla magistrata Maria Antonietta Troncone che ordinava la perquisizione di alcuni agenti, appunto, e il sequestro dei loro telefoni. Quel giorno, questi ultimi saliranno sui tetti celebrando il leader leghista e protestando contro questa azione condotta dall’arma dei carabinieri.
I sindacati di polizia inveiscono contro i magistrati, il procuratore generale di Napoli chiede la veridicità di quanto riportato negli articoli di stampa e denunciato da alcuni esponenti della penitenziaria. Le registrazioni video del sistema di sorveglianza, però, sono chiari: pestaggi, abusi, sospensione dello stato di diritto che porteranno a indagini verso dei servitori violenti e infedeli per tortura, maltrattamenti, violenza privata, abuso di autorità, depistaggio delle indagini, falsi.
Gli indagati sono 117. Il giudice per le indagini preliminari, Sergio Enea, ha disposto 52 misure cautelari (arresti e interdizioni) per agenti e dirigenti, incluso Antonio Fullone. Indagato da settembre scorso, quest’ultimo era rimasto al suo posto prima con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, poi con la ministra Marta Cartabia. Oggi, è interdetto per un provvedimento dell’autorità giudiziaria. 2300 pagine dell’ordinanza che forse daranno giustizia a esseri umani trattati come carne da macello. Risale a qualche giorno fa la bocciatura senza appello di Roma, da parte di Bruxelles, nel suo rapporto annuale sulla giustizia. Una catena di falsi che non sembrava avrebbe mai avuto una fine, anche a causa di una certa frivolezza politica, ma interrotta da chi ha svolto, dignitosamente e giustamente, il proprio lavoro. “Conosco quei padri di famiglia sotto accusa e sono convinto che non avrebbero fatto nulla di male”, dichiarava Matteo Salvini, mentre Fratelli d’Italia dava piena fiducia nella polizia penitenziaria, negli agenti e nei funzionari del Dap “intervenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per reprimere la gravissima rivolta organizzata dai detenuti durante il lockdown”. Il 15 giugno, infatti, 15 deputati del partito chiedevano al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di conferire un encomio solenne agli agenti della polizia penitenziaria del carcere del casertano.

 

 


Ma la coerenza non abita in certa politica, specie se fondata su un’eterna propaganda. Oggi, infatti, Matteo Salvini si dice “sconvolto dai video”. Domani?
“Si poteva evitare questo disastro. La scelta dei gruppi operativi è stata fortemente voluta dai vertici, ma molto contestata. La ragione è semplice, la storia degli orrori della polizia penitenziaria ha precedenti simili. Ogni quando si inviano agenti da altri istituti di pena succede un disastro”, ha affermato, invece, un dirigente dell’amministrazione penitenziaria. “Non si può criminalizzare tutto il corpo della polizia”, afferma Marta Cartabia, ministro della Giustizia dell’attuale governo, cadendo nel grave e sempre commesso errore per cui denunciare una parte equivarrebbe a includere il tutto.


Quanto accaduto è una grave violazione della dignità e dei diritti umani, inconcepibile in un Paese democratico. I pestaggi sono stati svolti con una certa preparazione e in modo tale che fosse difficile per le vittime riconoscere i propri aggressori. L’impossibilità, da parte dell’autorità giudiziaria, di identificare questi ultimi in tali casi resta una delle questioni da risolvere. L’introduzione dei codici identificativi sarebbe una delle soluzioni e una risposta trasparente nei confronti dei cittadini (che così si sentirebbero maggiormente al sicuro) e di quegli agenti che svolgono il proprio lavoro rettamente. Si tratta di pochi numeri o lettere poste sul casco o sull’uniforme dell’agente in questione che farebbero risalire alla sua identità in caso di uno svolgimento ingiusto del lavoro. Dal 2001, a seguito del caso Diaz, il suo utilizzo è stato raccomandato dal Parlamento europeo e dalle Nazioni Unite e su 28 stati europei è obbligatorio solo in 20. In Italia, i disegni di legge per la sua introduzione sono stati ostacolati e bloccati poiché metterebbe a rischio la vita degli agenti, riconoscibili, così, da manifestanti e criminali. La realtà dimostra il contrario. Il codice, inoltre, sarebbe segreto, e solo l’autorità giudiziaria e la polizia potrebbero collegarlo all’identità dell’agente.

Il sistema carcerario italiano e l’opinione che si ha dello stesso sono un problema sociale e politico. Urge un intervento a livello formativo ed educativo, rimettendo al centro figure quali educatori, assistenti sociali, psicologi, animatori. L’onestà potrà vincere quando sarà in grado di abbattere il muro di omertà e collusione, ad oggi imponente e di cemento armato, che avvolge chi svolge, senza dignità, il proprio lavoro a danno di gente inerme. Il governo e le alte cariche dello stato, in questo, è necessario si costituiscano parte civile nei processi per tortura nei confronti dei suoi servitori, ad oggi dimostratisi anti-stato in numerosi casi. Carceri violente generano violenza e risposte che, non trovate nell’educazione al diritto, vengono ricercate nella criminalità. Il carcere deve essere aperto alla società esterna. Non è un mondo a se stante, è parte sociale. Va regolato secondo i principi di integrazione, responsabilità e rispetto. Secondo la nostra carta costituzionale.

"(Fine)

Leggi qui la prima puntata, qui la seconda puntata.

Giorgia Cecca