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08/08/2022 06:00:00

La trattativa non fu reato. Le prime reazioni a caldo ed il dossier Mafia e Appalti

 Arrivano le motivazioni della sentenza di Appello del processo sulla trattativa Stato-mafia, che il 23 settembre scorso ha ribaltato quella di primo grado.

E’ la sentenza che ha visti assolti “perché il fatto non costituisce reato”, l’ex senatore Marcello Dell’Utri, il generale Mario Mori, ex capo del Ros, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno. Condannati invece a 27 anni il boss Leoluca Bagarella e a 12 anni  il medico-boss Antonino Cinà.

 

Le quasi 3000 pagine della Corte di assise di appello di Palermo non dicono che la trattativa non ci fu, ma che fu una “improvvida iniziativa” dei carabinieri del Ros che, dopo la strage di Capaci, avevano parlato con l’ex sindaco Vito Ciancimino perché facesse da intermediario con Totò Riina affinché cessassero le stragi. Ma, appunto, “il fatto non costituisce reato”.

E’ una sentenza che smonta l’ipotesi che alla base della strage ci sia stata la trattativa.

Semmai c’era l’idea di trattare con quella parte di mafia contraria alle stragi (che faceva capo al boss Provenzano).

Essendo stata esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a mantenere libero Provenzano, il motivo poteva essere collegato al fatto che il boss,

“meglio e più efficacemente di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste (mai del tutto sopite, potendo Salvatore Riina contare sempre su un vasto consenso e su non pochi sodali rimasti a lui devoti) o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”.

Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”. Lo scopo era mantenere “un assetto di potere mafioso che sancisse l’egemonia della componente moderata”.

 

Ma nelle motivazioni della sentenza di Appello si parla anche del dossier Mafia e Appalti.

E di come siano state sottostimate “le esigenze di tutela preventiva per gli stessi interessi mafiosi contro i rischi di un’indagine che andasse ad aggredire gangli strategici del potere mafioso, quali le sue fonti di arricchimento (e di fruttuoso reimpiego degli ingenti capitali accumulati) e i suoi crescenti e sempre più pervasivi collegamenti con ambienti qualificati del mondo politico e imprenditoriali, perseguiti e realizzati proprio attraverso l’inedito protagonismo di Cosa Nostra nel settore degli appalti che apriva canali e opportunità formidabili per implementare quei collegamenti”.

Certo, per Cosa nostra  c’era il rischio “che qualche politico ‘amico’ o qualche imprenditore rampante e più o meno colluso restasse invischiato nelle maglie di un’inchiesta come quella sfociata nell’arresto di Angelo Siino e pochi altri suoi sodali”.

 

Ma il vero pericolo era un altro. E cioè, viene spiegato nella sentenza, che si approfondisse quel tema d’indagine “sotto la sapiente regia e la determinazione di un magistrato esperto qual certamente era il Procuratore Aggiunto di Palermo unanimemente additato come erede di Giovanni Falcone, e nel solco di un’intuizione che era stata dello stesso Falcone, portasse alla luce o squarciasse il velo di silenzio che avvolgeva gli scenari davvero inquietanti di cui ha parlato, anche nella deposizione resa dinanzi a questa Corte, come già aveva fatto nel “Borsellino ter”, il senatore Di Pietro”.

 

Inevitabilmente, l’uscita delle motivazioni della sentenza ha prodotto diverse reazioni a caldo.

Salvatore Borsellino, sui social ha scritto: “Si dichiara non costituire reato per funzionari dello Stato trattare con i vertici della criminalità mafiosa allo scopo di fermare le stragi anche se questa trattativa, piuttosto che fermarle, provoca altre stragi ed altre vittime e soprattutto rende necessaria l’eliminazione del magistrato Paolo Borsellino che, sulla strada di questa trattativa, sarebbe stato un ostacolo insormontabile”.

 

L’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e legale dei figli del giudice ucciso in via D’Amelio, in un post su Facebook ha sottolineato invece che “Il clima all’interno della Procura di Palermo delineato nelle motivazioni contrasta decisamente rispetto alle parole riportate da Alessandra Camassa e Massimo Russo, testi qualificati, circa la definizione che Paolo Borsellino diede al suo ufficio di Palermo: un nido di vipere. La memoria di un valente Magistrato come Paolo Borsellino ci impone dunque un ultimo sforzo. E noi non ci sottrarremo, tanto più che il nostro cammino per la Verità, per alcuni, non avrebbe dovuto nemmeno essere iniziato”.

 

Egidio Morici