«Non “babbiamo”, Dell’Utri non è un perseguitato», esclama un politico siciliano del Pdl. È uno di quelli che si ispira alla vecchia destra sociale siciliana, quella, tanto per essere chiari, che era riferimento anche di Paolo Borsellino, e lo stare dentro il Pdl e essere associato a chi non perde occasione per attaccare chi sta conducendo le indagini più scabrose su mafia e affari e politica non gli piace affatto. Ovviamente chiede di rimanere anonimo, la paura di essere “escluso” in un partito che ormai vive solo della “coptazione” è tanta. Ma poi, prosegue: «Fini ha tutte le ragioni a chiedere che si vada avanti sulle indagini sulle stragi e sull’inciucio fra mafia e Stato. Deve essere fatta chiarezza, si è davvero a livelli preoccupanti. Si vada a leggere le motivazioni della sentenza». La sentenza, chiaramente, è quella del processo a Marcello Dell’Utri. Già , quelle 1.700 pagine raccontano uno scenario (che prende forma fin dagli anni ’70) che se riconfermato in secondo grado e, poi, in Cassazione, rappresentano un pericolo per la tenuta della maggioranza di governo e per il partito di Berlusconi. E allora leggiamo. Per scoprire che l’ex capo di Publitalia sarebbe stato condannato «per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata “Cosa Nostra”, nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività ». E poi giù, la lista di un quantitativo impressionante di accuse e circostanze. Come, per esempio, la partecipazione «ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa Nostra», di aver tenuto rapporti continuativi nel tempo con esponenti di altissimo livello della mafia come «Bontate Stefano, Teresi Girolamo, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Mangano Vittorio, Cinà Gaetano, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore» e, addirittura, ad aver provveduto «a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione». Ecco, dopo aver letto solo le prime quattro pagine della sentenza che lo condanna in primo grado a nove anni non “babbiamo” più. Nelle conclusioni si apprende che sarebbe stata fatta chiarezza «sulla posizione assunta da Marcello Dell’Utri nei confronti di esponenti di Cosa nostra, sui contatti diretti e personali con alcuni di essi (Bontate, Teresi, oltre a Mangano e Cinà ), sul ruolo ricoperto dallo stesso nell’attività di costante mediazione, con il coordinamento di Cinà Gaetano, tra quel sodalizio criminoso, il più pericoloso e sanguinario nel panorama delle organizzazioni criminali operanti al mondo, e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al gruppo Fininvest». E addirittura il pentito Antonino Giuffrè arriva a raccontare come Dell’Utri fosse il terminale dell’interessamento di Cosa nostra alla nascita di Forza Italia. «A Cosa nostra interessava che il vertice di questo movimento assumesse delle responsabilità ben precise per fare fronte a quei problemi – spiega il pentito – e poi, successivamente, l’andare a mettere degli uomini puliti all’interno di questo movimento che facessero, in modo particolare, gli interessi di Cosa nostra in Sicilia, mi sono spiegato?». Si è spiegato. Ma a fare da detonatore del processo in questa sua fase, queste le voci che circolano in questi giorni a Palermo, sarebbero le recenti dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco Vito, che racconterebbero (questa la versione tutta da verificare) di una possibile partecipazione di questo imputato eccellente nella trattativa fra Stato e mafia. Una trattativa, però, parallela da quella più conosciuta del “papello” di Totò Riina, e che riguarderebbe invece Bernardo Provenzano e ben un anno prima delle stragi del ’92. E se questo fosse solo anche parzialmente vero, bisognerebbe probabilmente riscrivere i libri di storia sulla mafia.
Pietro Orsatti (Terra)