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19/08/2024 22:05:00

"Non c'è una goccia d'acqua?". Le vere cause del disastro idrico siciliano

 L’emergenza idrica in Sicilia è diventato il leitmotiv di questa estate: non si parla d’altro, sui giornali o nelle TV, a livello locale o nazionale. Una situazione dipinta a tinte fosche che viene generalmente imputata al clima, irrimediabilmente compromesso dal riscaldamento globale, che ci regala sempre meno piogge.


Un allarme che, più passa il tempo, più suscita perplessità in chi scrive. Forse perché di estati torride ne ha vissute abbastanza da non credere che quella in corso sia la più calda mai esistita, come più volte riferito dagli organi di stampa; gli stessi che soltanto un anno fa ci raccontavano di temperature che sfioravano i 50° e di incendi che minacciavano intere città come Palermo o Trapani.

Ma di perplessità, quando si sente parlare di questo tipo di emergenza, in Sicilia, possono nascerne tante altre, e non certo legate al clima. Conoscendo il modo in cui viene gestita, da decenni, la risorsa idrica, non si può sentire dire che “in Sicilia non c’è una goccia d’acqua” senza avere un sussulto. Perché si tratta di un’affermazione semplicemente falsa, oltre che offensiva per l’intelligenza, almeno di chi ha studiato tecnicamente il problema.


Proviamo ad affrontarlo in termini meno demagogici ed apocalittici, cercando di spiegare perché si è arrivati all’emergenza attuale e quali potrebbero essere i rimedi, spesso ben diversi da quelli proclamati pubblicamente.

I numeri impietosi
Va subito detto, con assoluta chiarezza, che la crisi idrica che stiamo vivendo parte da lontano: non è un caso che già nel marzo del 2024 venne lanciato l’allarme dal ministro della Protezione Civile e delle Politiche del Mare Nello Musumeci: si stimavano allora 158 milioni di metri cubi di acqua disponibili a fronte dei 317 necessari per evitare rischi.


Un allarme, quindi, legato, non alla previsione di un’estate torrida impossibile da fare allora, ma al fatto che a fronte di risorse comunque cospicue, anche un andamento normale delle precipitazioni avrebbe comportato disagi per la popolazione e le attività produttive. Ma, occorre precisare, chi lanciò quell’allarme rammentò su tutto il territorio siciliano ci sono appena 7 dighe collaudate negli ultimi 50 anni su 25.

Non è un dato di poco conto, e non è un caso che non se ne parli sui media, ormai diffusamente abituati a diffondere i comunicati stampa anziché affrontare con i dovuti approfondimenti i fatti. Un’opera viene collaudata per essere dichiarata idonea all’esercizio: non si apre una strada, una ferrovia, un ospedale e nessun tipo di opera civile senza collaudo. Per le dighe, fortunatamente è un po’ diverso: anche quelle non collaudate possono essere utilizzate, ma a condizione che le sollecitazioni che subiranno non siano superiori ad una determinata soglia “di sicurezza”.


Nella pratica, ciò significa che si può procedere a riempire gli invasi a tergo delle strutture di sbarramento, ma con un volume di acqua drasticamente limitato per ridurre le possenti spinte prodotte dall’acqua. Raggiunta una certa soglia “di sicurezza”, e quindi un determinato livello dell’invaso, tutta l’acqua che vi arriva viene semplicemente restituita al corso d’acqua a valle, e, nella sostanza, buttata a mare.

In sintesi, come si legge nel Piano Regionale per la lotta alla siccità, edito dall’Autorità di Bacino del Distretto Idrografico della Sicilia, sui 46 invasi siciliani, soltanto 20 sono regolarmente collaudati ed utilizzabili a tutti gli effetti. Questo il quadro riassuntivo riportato nel Piano:

n° 3 sono incompleti;
n° 2 sono fuori esercizio temporaneo con invasi svuotati;
n° 20 sono collaudate ed in esercizio normale con disponibilità della risorsa idrica sino alla quota massima di progetto;
n° 8 sono collaudati ma con limitazioni d’invaso. (Dighe collaudate all’esercizio che non possono essere utilizzate secondo le potenzialità d’invaso a seguito di riduzioni quote d’invaso disposte dall’Organo ministeriale di vigilanza sulle grandi dighe per carenza di manutenzione straordinaria (DPR 85/1991 e ss.mm.ii.));
n° 13 sono in corso d’invaso sperimentale propedeutici al collaudo dell’esercizio normale. Trattasi di invasi che non hanno completato la fase sperimentale di riempimento controllato che precede il collaudo all’esercizio (Cap III, DPR 1363/1959) 

 


Quadro riassuntivo degli invasi siciliani; fonte: Piano Regionale per la lotta alla siccità
Fra gli invasi non collaudati troviamo l’invaso Rosamarina, tra i più capienti della Sicilia, con i suoi 100 milioni di metri cubi; peccato che sia autorizzato a contenerne soltanto 61,93 essendo classificato come “invaso sperimentale” anche se contribuisce, e non poco, all’approvvigionamento idrico della città di Palermo. Città servita anche dallo Scanzano, anch’esso privo di collaudo, che su 18 milioni di metri cubi può invasarne soltanto 8.


Che il lago Trinità, nei pressi di Castelvetrano, anch’esso in attesa di collaudo dal 1959 (anno in cui fu realizzato lo sbarramento), venga regolarmente svuotato davanti agli occhi di agricoltori attoniti, è stato persino raccontato dalle distratte cronache giornalistiche. In questo caso possono essere invasati soltanto 6 milioni di meri cubi contro i 18 totali.

Tre esempi delle ventuno “limitazioni” in altrettante dighe siciliane, a cui vanno aggiunti i tre sbarramenti in costruzione da decenni ed ancora lontane dall’essere ultimate, che quindi non invasano alcunchè: tra queste le famigerate Blufi e Pietrarossa.


Il risultato, di cui andare poco fieri, è che su una capienza totale di 1.129 milioni di mc. previsti negli invasi siciliani, se ne possono invasare soltanto 725: poco più del 64%.

Quindi, anche se piovesse, avremmo a disposizione meno dei due terzi delle riserve idriche previste per la Sicilia in tempi in cui di acqua se ne consumava molto meno. Ragionando in maniera inversa, la ridotta capienza del sistema siciliano degli invasi ci costringe a buttare a mare le risorse idriche che oggi ci manterrebbero al sicuro da qualsiasi emergenza.


La grande balla: non c’è acqua perchè non piove da mesi!
Già questo fa comprendere che la vera causa dell’attuale crisi idrica non è la scarsa piovosità, la quale, peraltro, non sorprende a queste latitudini. Ammesso che, in questo periodo, ci sia effettivamente una “scarsa piovosità” e che gli stessi invasi siano effettivamente a secco.


Anche in questo caso, i numeri parlano chiaro e, soprattutto, non fanno politica. Il 2023, che uno dei meno piovosi degli ultimi venti anni, ha visto cadere 588 mm di pioggia sui 25.711 kmq dell’isola che equivalgono complessivamente a circa 15,2 miliardi di mc d’acqua. Una dotazione undici volte superiore alle necessità dell’isola, stimata dalla Regione (Piano di Gestione del Distretto Idrografico della Sicilia)in 1,358 miliardi di mc. O, per i più pignoli, 13 volte più di quanto ne potrebbero contenere gli invasi dell’isola qualora fossero pienamente utilizzabili.


Anche considerando una quota pari alla metà di acqua che evapora o si infiltra nel terreno o finisce in mare con deflussi superficiali, ne resterebbe a disposizione una quantità tale da scongiurare qualsiasi emergenza per anni.

Ciò è confermato, con riferimento all’anno in corso, da Mario Pagliaro chimico del CNR, grande esperto in materia di clima e studioso delle infrastrutture idriche siciliane, intervistato qualche giorno fa da thehour.info. Il tecnico ha dichiarato che nel mese di agosto le precipitazioni sono state particolarmente abbondanti, soprattutto nell’Ennese.


“Non erano mancate nemmeno a Luglio, specie nel Messinese” ha precisato Pagliaro, aggiungendo che “il mese di Agosto 2024 sarà ricordato in tutta Italia, inclusa la Sicilia, per l’eccezionale piovosità. Le dighe siciliane non sono a secco: se lo fossero, a Palermo o nel suo aeroporto non ci si potrebbe nemmeno lavare. L’acqua fluisce regolarmente verso Palermo e la sua grande provincia costiera dalla diga Rosamarina, così come da quella del Poma e di Piana degli Albanesi. Ottimo anche l’invasamento delle acque della diga sul Lago Arancio che, oltre a dare acqua ad una vasta parte della Valle del Belìce, invia addirittura l’acqua verso Trapani”.


Eppure, nonostante ciò, si continua a dire che non piove da mesi e, quindi, non c’è acqua. Con emergenze che interessano intere province, come Caltanissetta e, soprattutto, Agrigento, dove ci sono centri abitati in cui l’acqua arriva ad intervalli di settimane. Il motivo è semplice, come spiega lo stesso Pagliaro:

“Ad Agrigento occorre solo rifare da zero l’intera rete idrica urbana. Non solo perché ha perdite superiori al 50 per cento, ma perché in molti punti è così ammalorata da perdere l’intera acqua che vi entra. Molto spesso ad Agrigento capita di osservare la formazione di fontane stradali: è l’acqua che perdono le tubazioni man mano che si rompono”.


Quello della distribuzione è un capitolo che andrebbe affrontato a parte, se è vero, come è vero, che perdite similari si verificano un po’ ovunque in Sicilia.

Come leggiamo dal corriere.it “La Sicilia è la terza regione d’Italia per perdita d’acqua con il 52 per cento con punte del 58% nell’Agrigentino (che è la provincia con minor risorsa idrica dell’Isola). Vi sono altri paradossi e contraddizioni, nell’area più ricca di acqua -quella etnea- vi sono alcune zone dove la perdita idrica (comunicazione pubblica dell’ente gestore) raggiunge il 75%”.

Nella tabella seguente, per avere un quadro completo, possiamo leggere i dati Istat sulle perdite nelle province siciliane. Va però precisato un aspetto: non sempre le perdite sono dovuti a “buchi” creati vetustà delle tubazioni. A volte si tratta di “prelievi non autorizzati”: buchi si, ma realizzati da cittadini poco avvezzi a pagare quello che consumano.

 

 Questi dati sono rilevati in condizioni “normali” di esercizio, ma non mancano affatto i casi in cui un guasto o una rottura metta in ginocchio anche le città più “fortunate”: tutti ricorderanno il caso di Messina, rimasta incredibilmente a secco, in piena estate, nel 2015 per una frana che aveva interrotto la condotta che, prelevando l’acqua nell’area di Fiumefreddo, nel catanese, riforniva la città dello Stretto. Per ripararla si dovette lavorare per settimane, con enormi disagi per gli abitanti di una città situata ai piedi di alte montagne ed attraversata da decine di torrenti… Avrebbe proprio bisogno di prelevare il prezioso liquido a 70 km di distanza?

L’uso cervellotico delle risorse idriche
Un interrogativo che aprirebbe il capitolo, sconfinato, dell’uso razionale delle risorse idriche, spesso assenti proprio laddove la natura non fa mancare sorgenti e corsi d’acqua, come avviene a Cesarò (ME), alle pendici dei Nebrodi, in questi giorni: acqua razionata, pompata con grave dispendio di energia elettrica dalle parti di Maniace (CT) a 9 km di distanza. Ma sorgenti a pochi metri dal paese, regolarmente alimentate, ma dalle quali è impossibile attingere perchè non sono mai state realizzate le condutture previste e persino finanziate.

Capita infatti, in Sicilia, di avere a disposizione invasi, opere di presa e sorgenti ma non gli acquedotti per potervi attingere l’acqua proveniente; oppure, come avviene per le dighe, di avere le tubazioni ma non poterle utilizzare perché non collaudate.

Un altro capitolo infinito è quello degli usi irrigui, dove gli agricoltori che hanno avuto a che fare con i Consorzi di bonifica toccano quotidianamente con mano i malfunzionamenti di reti irrigue concepite negli anni ’50 del secolo scorso e mai manutenute.

Come racconta sempre il corriere.it “le paratie del Ponte Barca del Simeto, danneggiate da diversi anni, non permettono di raccogliere l’acqua che non fermata giunge parecchi chilometri più avanti nel mare. Gli agricoltori lamentano che mentre gli agrumeti e le altre coltivazioni soffrono la mancanza di acqua, il bene prezioso viene in buona parte sprecato perché vi sono disfunzioni nelle paratìe. È stato deciso l’intervento, meglio tardi che mai…”

Nessun intervento, ma i soldi ci sono, e da decenni
Ma visto che le cause del problema sono note, e non dipendono da Giove pluvio, perché non si è pensato per tempo a riparare o collaudare gli acquedotti e le condutture di distribuzione, le opere di presa o a completare i lavori in corso per i nuovi invasi?

Ce lo fa capire l’ing. Tuccio D’Urso, un funzionario regionale di primissimo ordine e rara esperienza, che ha seguito in prima persona il tema dello sfruttamento delle risorse idriche in Sicilia in una sua recente dichiarazione sui social:

“nel 1991 per incarico del presidente Nicolosi ho redatto la sintesi di tutti gli interventi nel settore idrico allora finanziati, realizzati, o in corso di realizzazione. Una massa di investimenti che, solo per elencarli, ho avuto bisogno di 47 pagine, la somma allora del denaro investito sommava a 7000 miliardi di lire, oggi non meno di 8 miliardi di euro, senza contare l’inflazione che ne moltiplicherebbe l’importo finale almeno per quattro. Incredibile constatare che quanto allora risultava in costruzione lo è tuttora, come la diga di Blufi, fondamentale per approvvigionare l’agrigentino e il nisseno. Altrettanto incredibile constatare che nessun intervento di rilievo è stato realizzato dopo il 2000 quando il sistema idropotabile della Sicilia è stato privatizzato”

Quindi non si riesce a realizzare o completare da decenni interventi essenziali, nonostante la presenza di risorse finanziarie che smaschera, ancora una volta, l’altra grande balla: “non ci sono i soldi”. L’unica spiegazione di questo immobilismo, che riguarda l’amministrazione pubblica ma, constatiamo, anche le aziende private, ovvero “partecipate” dalla stessa Regione, non può essere che essere la scarsa capacità gestionale e tecnica, a cui la politica non riesce a porre rimedio. O, per meglio dire, non ci prova neanche.

Vogliamo ancora credere che il problema, in Sicilia, sia quello, peraltro contingente, delle scarse piogge?

Cosa fare?
Vediamo, a questo punto, di capire quali siano gli interventi da realizzare, probabilmente già noti a tecnici e politici, essendo presumibilmente contenuti nelle 47 pagine citate da D’Urso.

Sono, però, interventi a medio-lungo termine che non servono nell’immediato, a buoi abbondantemente scappati. L’emergenza che si è creata, e che va affrontata subito, soprattutto nelle aree più vulnerabili, non lascia altro spazio che a decisioni drastiche. E’ di qualche giorno fa l’invito, l’ennesimo, che il responsabile della Protezione civile regionale ha fatto ai sindaci affinchè requisiscano i pozzi privati per rifornire con autobotti le utenze assetate.

Facile a dirsi, ma non a farsi, soprattutto per i politici locali di oggi, tanto attenti a non scontentare mai nessuno, per non perdere preziosi voti. E siamo sicuri che chi si vede requisito un pozzo non può certamente essere contento, specie laddove l’acqua è un bene prezioso il cui controllo conta, e non poco. Non dobbiamo certo meravigliarci se questi inviti cadono regolarmente nel vuoto e se, con tutta probabilità, dovranno intervenire i Prefetti.

Al di là dell’emergenza, per risolvere in via definitiva la “crisi idrica” permanente in Sicilia, come primo intervento a medio-lungo termine va previsto il totale rifacimento della rete acquedottistica siciliana. Non è pensabile che reti realizzate, nel migliore dei casi, 50 anni fa, siano ancora in grado di svolgere la loro funzione senza problemi, ora come in futuro. Ed i dati che abbiamo riportato lo dimostrano ampiamente.

Occorre inoltre lavorare sugli invasi. Effettuare i collaudi non basta: è ovvio che, trattandosi di opere realizzate molti decenni fa, occorre prima riqualificarle, e non soltanto strutturalmente. La tecnologia mette a disposizione di questi impianti dispositivi atti a migliorare, e non poco, il monitoraggio della risorsa idrica e la razionalizzazione del suo utilizzo.

Occorre inoltre completare le dighe Blufi, sulle Madonie e Pietrarossa, nel Calatino (dove i lavori sono stati recentemente avviati), essenziali per fornire risorse sufficienti alle città del nisseno e dell’agrigentino, nel primo caso, ed alle campagne della Piana di Catania nel secondo.

Più a portata di mano potrebbe essere, invece, provvedere al riutilizzo delle acque reflue prodotte dai depuratori ad usi irrigui, come raccomanda la UE che da molti anni mette a disposizione le risorse per la realizzazione delle necessarie condutture. Risorse quasi sempre restituite al mittente per carenza di progettualità o, diciamolo pure, di attenzione al problema. Ci sono anche casi, come quello del depuratore di Catania nei pressi della foce del Simeto, in cui le condotte sono state realizzate e mai completate, con lavori fermati a pochi metri dagli impianti di rilancio in rete.

Eppure si tratta di milioni di metri cubi preziosissimi che, ancora una volta, buttiamo regolarmente a mare. Tanto, alla bisogna, possiamo sempre prendercela con il Dio della pioggia.

Un cenno merita la tematica dei dissalatori. Alla Regione giurano che siano necessari, e lo stesso ing. D’Urso ne raccomanda la realizzazione, ma non tutti sono di questo avviso. Pagliaro, in tal senso, è drastico: “Non ha alcun senso tecnico od economico. I dissalatori ad osmosi inversa sono una preziosa tecnologia, che stiamo peraltro per innovare proprio al CNR, con cui produrre acqua dolce in zone dalla bassissima piovosità come le isole meridionali della Sicilia (Pantelleria, Linosa e Lampedusa) o in aree desertiche o semidesertiche come sono molti Paesi del Vicino Oriente. La Sicilia è ricchissima di acque, e non ha alcun bisogno di dissalatori”.

Che i dissalatori siano antieconomici, lo sappiamo da tempo: altrimenti, sarebbero ancora in funzione a Porto Empedocle come a Trapani, dove invece sono stati fermati decenni fa proprio perché costavano troppo. Oggi potremmo anche aggiungere che non sono “sostenibili” nei confronti dell’ambiente, visto che devono essere alimentati da combustibili fossili.

Realizzare nuovi impianti di dissalazione, come vogliono fare alla Regione, comunque, potrebbe essere soltanto un rimedio a lungo termine, dato che la realizzazione di questi impianti richiede anni, tra progettazione ed esecuzione dei lavori.

E non parliamo più, per favore, di “giacimenti d’acqua” come quello “scoperto” sotto i monti Iblei, che solo una profonda incompetenza può condurre a prendere seriamente in considerazione. Eppure alla Regione lo hanno fatto, non essendo, con tutta evidenza, informati delle problematiche insite in un “prelievo” di acqua a profondità così elevate (dai 700 ai 2500 metri!) che comportano costi altissimi di pompaggio in superficie. Senza considerare altri “dettagli” non da poco, come la verifica dell’utilizzabilità di queste acque: qualche giorno fa, discutendone con un geologo di chiara fama, il dott. Bruno Copat, chi scrive veniva informato della più che probabile scarsa qualità di tali acque, ubicate in un sottosuolo molto ricco di idrocarburi.

Unica strada il Commissariamento
Mettendo da parte il folclore e le non-notizie di seconda mano (quella del giacimento ibleo è una notizia vecchia, che torna buona in tempi di siccità) è opportuno che la gestione di questi interventi non venga lasciata al caso, né a Enti che spesso non hanno il personale neanche per celebrare le gare di appalto. Lo strumento del commissariamento, in tal senso, sarebbe la soluzione ottimale.

Ne parla Pagliaro, nella sua intervista, a proposito della rete idrica di Agrigento: “il Ministero deve nominare un commissario governativo affidandogli pieni poteri e il denaro per rifare la rete. La città è molto piccola, e al rifacimento integrale della rete di Agrigento, magari coinvolgendo centinaia di maestranze e tecnici a coordinarne il lavoro, basterebbe un anno”.

Uno strumento che chi scrive estenderebbe a tutti, proprio tutti, questi interventi. Affidandosi, possibilmente, ad una struttura tecnica adeguata. E’ del tutto evidente che Regione, Enti gestori e Consorzi di bonifica, come è stato dimostrato negli ultimi decenni, non son in grado non soltanto di procedere speditamente ma, come abbiamo visto, neanche di cominciare a realizzare tali opere. Per poi invocare la pioggia come unica soluzione ad un problema che tali enti avrebbero avuto tutto il tempo di risolvere molti ma molti anni fa.

Per progettare e realizzare le opere pubbliche in tempi non dico rapidi, ma almeno accettabili occorre una struttura snella, dall’alto livello medio di professionalità, con una catena di comando essenziale e snella; sul modello, per intenderci, delle Autorità Portuali. Enti capaci, tra lo stupore generale, di cambiare il volto dei porti, anche e soprattutto in Sicilia. Chi ha visitato di recente il porto di Palermo ed ha visto i progetti che riguardano Trapani, Catania o Augusta, sa di cosa parliamo. A condizione, ovviamente, che la scelta dei manager, ovvero dei commissari, sia fatta con giudizio, guardando soprattutto al merito. Ne sarà capace la politica, principale responsabile del disastro?

 

Roberto Di Maria - Siciliainprogress (qui l'articolo originale)