Da una parte c’è il Sindaco uscente, Salvatore Gino Gabriele, sostenuto da una lista civica che si chiama “Progetto Pantelleria”. Dall’altra parte, e questa è la notizia, candidato a Sindaco è, con la lista Pantelleria Libera, l’ex sindaco Alberto Di Marzo. C’ è anche un terzo candidato, l’avvocato Paternò, della Lega Nord. Ma per una volta non è la Lega che cerca consensi al sud a fare notizia. La notizia è la candidatura di Alberto di Marzo. Pupillo di Bartolo Pellegrino, Di Marzo è stato Sindaco di Pantelleria fino al 23 Settembre del 2002, giorno in cui fu arrestato con l’accusa aver compiuto estorsioni a danno di imprenditori in un contesto dove – secondo la Squadra Mobile di Trapani - “un gruppo di potere usava metodologie di tipo mafioso” per gestire l’isola di Pantelleria. Con lui furono arrestati gli imprenditori Antonino ed Antonio Messina, padre e figlio, accusati, oltre che di estorsioni, anche di minacce, della detenzione di due kalashnikov, di attentati ad impianti di pubblica utilità e di avere commesso un attentato ai danni del tecnico del Comune di Pantelleria Giuseppe Gabriele. In manette finì anche l’ex consigliere comunale di Paceco Pietro Leo. Mesi e mesi di intercettazioni e controlli avevano portato gli investigatori a scoprire una incredibile situazione di intimidazione costante che caratterizzava l’ isola in cui i due Messina tenevano sotto ricatto gli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti. Così quando Giuseppe Gabriele non aveva concesso il nulla osta per l’ apertura di una sala da ballo, i Messina gli fanno recapitare un pacco - bomba, una videocassetta che esplode nelle mani del’ impiegato comunale, procurandogli gravi ferite ad una mano.
Di Marzo nel 2002 finisce dunque in galera. Al momento dell’arresto, in suo possesso viene trovato un foglietto dove tiene appuntate l secondo l'accusa - e cifre riscosse e da riscuotere da ogni impresa.
Le intercettazioni sono molto compromettenti. Nell'ordinanza di custodia cautelare si cita che Di Marzo ad esempio nel Dicembre 2001 interviene direttamente per convincere l’imprenditore Matteo Bucaria a pagare le rate (5 milioni di vecchie lire) dell’estorsione posta dai Messina, e gli fa pesanti minacce, prospettandogli l’incendio o il danneggiamento dei mezzi operativi, sia la messa in campo, da parte dei Messina e con l’ausilio dei suoi poteri amministrativi , di intralci burocratici nel pagamento degli stati di avanzamento dell’appalto gestito da Bucaria, nonché ipotetiche denunce ai carabinieri per l’anomala gestione di pregressi lavori di appalto.
All’inizio Di Marzo si rifiuta di parlare, poi, pur di uscire dal carcere, si dichiara pronto a risarcire le parti estorte, ed è pronto anche a risarcire i danni morali. Al processo, che si tiene a porte chiuse, Di Marzo si dichiara addirittura vittima, non complice, ma vittima dei due imprenditori Messina che avevano creato sull’isola un clima di intimidazione da cui non era riuscito a venire fuori.
Come accade spesso dalle nostre parti, il Comune di Pantelleria, individuato dalla Procura antimafia di Palermo come parte offesa, non si costituisce parte civile. Non è che manca la volontà , purtroppo gli atti necessari alla costituzione in parte civile vengono redatti talmente male che i giudici non possono accogliere la richiesta.
Durante l’udienza preliminare i difensori di Di Marzo leggono le lettere dell’imputato: si dichiara pronto a restituire il denaro agli imprenditori estorti, pronto a risarcire i danni anche a chi non ha pagato, come per esempio alla Smede, l’azienda elettrica che aveva subito un attentato proprio perché non aveva pagato il pizzo. Questo atteggiamento gli varrà il riconoscimento di un’attenuante al momento della condanna in primo grado.
Nel processo vengono ascoltati solo tre testimoni, l’imprenditore Matteo Bucaria, vittima dell’estorsione, il geometra Gabriele e il comandante della stazione dei carabinieri di Pantelleria, maresciallo Lodi. Cosa c’entra quest’ultimo? Di Marzo sostiene che è a lui che ha confidato le minacce subite dai Messina. Di Marzo produce infatti in udienza un cd con la registrazione di un colloquio con il comandante della stazione dei carabinieri al quale confidava i suoi timori sul ruolo criminoso dei due Messina. Lodi conferma in aula il colloquio avuto con Di Marzo. Ma gli investigatori sottolineano due aspetti singolari: dopo quel colloquio con i carabinieri altri non ne sono succeduti, e nessuna denuncia o alcuna dichiarazione a verbale è stata fatta mettere da Di Marzo. Inoltre, proprio dopo quel colloquio con Lodi, Di Marzo si incontrava di nuovo con i due Messina per spartirsi del denaro e decidere cosa fare con un imprenditore che non voleva pagare. L’attività estortiva aumentò, eppure quel colloquio rimase isolato, e una denuncia non vi fu mai. Secondo il Pubblico Ministero, Di Marzo registrò quella conversazione con il maresciallo Lodi per prepararsi una singolare via di fuga nel caso le cose fossero andate male.
Il geometra Gabriele, invece, racconta al processo dell’attentato subito: era andato a ritirare la videocassetta presso la lavanderia del padre. Era il 14 Marzo 2001. L’aprì in auto e ci fu il botto. Dopo pochi giorni un altro dirigente dell’ufficio tecnico del Comune fu minacciato dal più vecchio dei Messina: “Ti faccio vedere lo stesso film”.
In primo grado Di Marzo viene condannato, tuttavia cade l’aggravante di avere agito con modalità mafiose e le pene vengono attenuate. Di Marzo, difeso dagli avvocati Sbacchi e Alagna, viene condannato a 3 anni e 6 mesi, ed è costretto al risarcimento del danno nei confronti di Bucaria. Totò Messina viene condannato a 4 anni e 10 mesi. Suo padre Nenè a 11 anni e 2 mesi. Tuttavia padre e figlio vengono assolti da altri episodi che l’accusa aveva portato al vaglio dei giudici: l’attentato alla società elettrica dell’isola (la Smede) e l’intimidazione compiuta ai danni dei lavoratori del dissalatore. Insomma, l’unico fatto, giudizialmente accertato, per i quali i tre vengono condannati è l’estorsione a Bucaria. Per l’attentato ai tecnici comunali Gabriele e Lo Pinto le uniche responsabilità vengono addebitate a Nenè Messina.
In appello, nonostante l’accusa chieda un inasprimento della pena, Di Marzo viene assolto “per non aver commesso il fatto” dalla seconda sezione della Corte d’Appello di Palermo, che annulla dunque la condanna in primo grado a tre anni e mezzo per estorsione. Di Marzo, dunque, con sentenza passata in giudicato non era assolutamente un estortore, ma si prestava al gioco per salvaguardare l’ordine pubblico nell’isola ed evitare guai peggiori agli imprenditori. Gli viene riconosciuta l'ingiusta detenzione, e quindi un risarcimento da parte dello Stato. Viene confermata invece la condanna in primo grado per Antonino Messina, con una lieve riduzione per il figlio. Per entrambi è esclusa l’aggravante mafiosa.
Non è successo nulla? Forse.
Perché rimane un dubbio. Di Marzo, infatti, spontaneamente, quando il processo era alle prime battute, si è offerto di restituire le somme pagate per il “pizzo” da Bucaria. E lo ha anche fatto. Perché quelle somme non sono state chieste indietro, dopo la sua assoluzione? E’ il primo caso conosciuto di un non – estortore che risarcisce una estorsione che non ha commesso. Sia chiaro: Di Marzo è innocente, la sua fedina penale è pulita, è stato risarcito per la sua ingiusta detenzione.
Resta però una macchia, quella si, indelebile, grande come una casa, e che riguarda tutto il Comune di Pantelleria, e la comunità di abitanti che vive sull’isola.
Per capire cos’era Pantelleria nel 2002 basta leggere il decreto di scioglimento del Comune del 2003 (Gazzetta Ufficiale n. 76/2003, del 17 Marzo), che porta la firma di una persona sicuramente non rivoluzionaria, Beppe Pisanu, all’epoca Ministro dell’Interno e oggi Presidente della Commissione Antimafia. Nessuno ha mai smentito, cancellato, rivisto quel decreto di sciogliemento, che riporta, testualmente, queste parole: “Il comune di Pantelleria presenta un contesto ambientale di ingerenza della criminalità organizzata finalizzata alla manipolazione di attività economiche connesse al settore pubblico. Le risultanze dell'attività di accesso hanno evidenziato la sussistenza di fattori d'inquinamento dell'azione amministrativa, a causa dell'influenza della criminalità organizzata che si è inserita nella gestione del comune, per conseguire illeciti arricchimenti soprattutto nel settore delle opere e dei servizi pubblici. E’ emerso un chiaro disegno criminoso volto ad instaurare una condizione di soggezione delle imprese interessate all'esecuzione di lavori pubblici nell'isola. (…). Nel settore degli appalti è stato registrato il ripetersi sistematico delle stesse ditte nell'aggiudicazione delle gare, con criteri di assoluta parzialità ed in dispregio ai princìpi di trasparenza ed economicità , nonché il ricorso allo strumento della perizia di variante e suppletiva, con conseguente danno economico per l'ente. L'esame degli atti relativi agli appalti, ed in particolare dei verbali di gara, ha evidenziato l'esiguità del numero di ditte partecipanti, le quali presentavano ribassi contenuti tali da far presumere accordi mirati a favorire proprio le ditte aggiudicatarie. Lo stato di disordine amministrativo e gestionale che ha improntato l'attività del comune è emerso dal ricorso sistematico all'adozione di atti amministrativi non conformi alle disposizioni di legge, e nell'affidamento dei lavori di somma urgenza. Inoltre, la partecipazione di alcuni amministratori a società interessate ai finanziamenti connessi al patto territoriale per lo sviluppo economico integrato è indicativa di una commistione di ruoli in grado di pregiudicare la finalità di valorizzazione del territorio (…). La gran parte dei provvedimenti di concessione edilizia rilasciati dall'amministrazione riguarda progetti ai quali risultano aver partecipato soggetti che ricoprono incarichi istituzionali in ambito comunale. La situazione riscontrata nel Comune di Pantelleria, la diffusa inosservanza del principio di legalità nella gestione dell’ente e l’uso distorto della cosa pubblica, utilizzata per il perseguimento di fini contrari al pubblico interesse, hanno compromesso le legittime aspettative della popolazione ad essere garantita nella fruizione dei diritti fondamentali, ingenerando sfiducia nella legge e nelle istituzioni da parte dei cittadini. Il prefetto di Trapani, pertanto, con relazione del 14 febbraio 2003, ha proposto il commissariamento del Comune per sostenere il ripristino della legalità ”.
Francesco Timo