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24/06/2010 07:06:28

Strage di Alcamo Marina: oggi il giorno della verità?

 

La svolta sulle indagini avvenne il 13 febbraio. A un posto di blocco fu fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, su una Fiat 127 verde con una targa di cartone “Trapani 121”. Questi aveva in mano una pistola (si pensa che fosse scarica dato che il giovane aveva un arto amputato) e dopo una perquisizione ne venne trovata una seconda. Era una Beretta in dotazione ai carabinieri, probabilmente rubata durante l’omicidio della casermetta. Dopo una perquisizione a casa del ragazzo e attente analisi si dimostrò che Vesco era in possesso dell’arma del delitto. Fu dunque interrogato dai carabinieri ma questi negò in modo deciso la sua partecipazione all’agguato dicendo che doveva solo consegnare le armi a qualcuno. Dopo aver  negato in tutti i modi la sua partecipazione alla strage improvvisamente il fermato Vesco cambiò versione.

 Vesco fece ritrovare armi e divise in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico. Vesco confessò di aver partecipato alla strage insieme ad altri tre ragazzi: Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli.

I tre ragazzi alcamesi più il partinicese Mandalà furono tutti tratti in arresto per omicidio e costretti a confessare firmando un verbale di riconoscimento di colpevolezza.

La versione accertata dei fatti fu la seguente: Giovanni Mandalà, il bottaio di trentotto anni di Partinico, avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica e a sparare invece sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, due giovani alcamesi di diciannove e diciassette anni, mentre Vincenzo Ferrantelli, uno studente di sedici anni di Alcamo, avrebbe solo messo a soqquadro le stanze.

30 anni dopo, il colpo di scena. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha spiegato come si sono svolti veramente i fatti. Dopo 32 anni dall’accaduto l’ex brigadiere Olino ha affermato chiaramente che sia a Vesco che agli altri ragazzi accusati, le confessioni furono estorte con violenza. Vennero messi nelle loro bocche imbuti e versati al loro interno grossi quantitativi di acqua e sale. Gli accusati furono anche picchiati  e venne usato anche un “telefono da campo” in grado di produrre scariche elettriche per torturare ulteriormente i fermati.

Giuseppe Vesco però aveva dichiarato già nel 1976, dopo aver firmato la sua colpevolezza, di essere stato torturato.  Dopo qualche mese da quel tragico gennaio 1976 Vesco aveva provato anche a scagionare i presunti complici, purtroppo senza riuscirci. Ma il 26 ottobre del 1976, pochi giorni prima di essere ascoltato dagli inquirenti: Giuseppe Vesco, nonostante avesse un arto imputato, viene ritrovato impiccato alle sbarre della finestra della sua cella.

Gli accusati da Vesco, anche loro torturati, subiscono un’odissea di condanne dopo un iter giudiziario complicato. Ergastolo per il bottaio Giovanni Mandalà, che avrebbe aperto la porta della caserma con la fiamma ossidrica e custodito le armi, ergastolo a Giuseppe Gulotta, che avrebbe sparato, 20 anni a Gaetano Santangelo, che avrebbe sparato anche lui ma allora minorenne, e 20 anni anche a Vincenzo Ferrantelli, che ha rubato armi e divise anche lui minorenne.

Mandalà è deceduto di morte naturale dopo essersi fatto diversi anni di carcere, Santangelo e Ferrantelli, tra un appello e l’altro, si sono rifugiati in un paese del Sudamerica che non ha accordi di estradizione con l’Italia.

Il brigadiere Olino s’è presentato spontaneamente nel 2008 davanti al procuratore capo della Procura di Trapani e ha rivelato che furono mandati in galera degli innocenti. Gulotta ha chiesto e ottenuto la revisione del processo.

Un collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, della famiglia di San Cataldo di Caltanisetta, soltanto recentemente ha illustrato un’altra verità: quando era in carcere a Trapani venne a sapere da altri mafiosi di Alcamo che la strage della casermetta era stato un errore. Era stato stabilito di affidarla ad alcuni affiliati della famiglia di Alcamo ma poi era stato deciso di che non si sarebbe fatta più. Il contro-ordine purtroppo era arrivato troppo tardi e la mafia aveva ugualmente eseguito l’operazione. Perché la mafia doveva eseguire tale strage? Perché Cosa Nostra aveva pianificato una serie di attacchi allo Stato: era stata decisa una vera e propria strategia della tensione. Probabilmente accordi segreti tra mafia e servizi segreti deviati.

Un altro mafioso della famiglia di Alcamo, Giuseppe Ferro, conferma che la strage della casermetta non fu eseguita da quei giovani accusati e che la mafia questo lo sapeva bene.

Oggi dopo le rivelazioni di Renato Olino, i magistrati indagano ancora e sono tornati sulle tracce di GLADIO. La presenza di Gladio è documentata a Trapani negli anni 90 (con l’esistenza del misterioso Centro Scorpione) ma le indagini sulla casermetta inducono a ritenere che questa a Trapani ci fosse già da molto tempo prima.

Il 26 gennaio 1976 Apuzzo e Falcetta avrebbero fermato un furgone. Danno l’alt, vogliono vedere cosa trasporta. La scoperta è incredibile: ci sono tantissime casse piene di armi e gladiatori della sede trapanese di Gladio. Tutti vengono portati nella casermetta per il verbale ma Apuzzo e Falcetta vengono uccisi. Un poliziotto del trapanese ha riferito recentemente alla magistratura che una fonte sicura gli riferì nel 1993 la vera storia della strage della casermetta: Il furgone fermato portava armi di Gladio, nella casermetta fu organizzata una messainscena, forse i carabinieri furono portati altrove e poi riportati morti all’interno della caserma. Dagli armadi probabilmente sparì anche qualcos’altro. E per questo furono uccisi perché non venisse svelata «Gladio» che per vent’anni ancora sarebbe rimasta segreta, ma forse anche per non far svelare qualcos’altro…

Le rivelazioni dell’ex brigadiere Olino hanno portato sotto inchiesta i componenti di quel gruppo: Elio Di Bona, Giovanni Provenzano, Giuseppe Scibilia, Fiorino Pignatella. Chiamati a rispondere davanti al pm nonostante la conclamata prescrizione si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Da loro nessuna conferma ma neanche alcuna smentita.