Mi era sembrata una dichiarazione inopportuna, stonata e stranamente sincrona con una analoga dichiarazione dell’arcivescovo di Palermo Paolo Romeo che aveva addirittura lamentato un preteso spreco di risorse pubbliche per “quanto si spende per le cene dei magistrati con scorta”. Delle affermazioni del monsignore non vale nemmeno la pena di parlare, basterà ricordargli i 2,5 milioni di euro che verranno dilapidati per la visita del Papa a Palermo – una città con enormi problemi di ogni tipo – in opere delle quali alla città non rimarrà nulla, o chiedergli perché invece di lamentarsi dei fondi per pretese cene dei magistrati con scorta, che non mi risultano avvenire abitualmente o essere a carico dello Stato, non abbia parlato invece dei costi della politica istituzionale non per scorte ma piuttosto per escort e al costo dei voli di Stato adoperati per trasferire in ville in Sardegna nani, ballerine e menestrelli di ogni tipo.
Ad Ayala che afferma, tra l’altro che “Cosa nostra è cambiata, da oltre 18 anni non uccide più” e che auspica per questo “una responsabile, se pur graduale rivisitazione delle scorte in circolazione” avrei voluto ricordare i progetti di attentati, per fortuna scoperti in tempo grazie a quelle intercettazioni che si vorrebbero abolire, nei confronti di magistrati come Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Sergio Lari, Giovanbattista Tona e gli attentati, progettati o anche realizzati seppure finora per fortuna senza esiti mortali, nei confronti di magistrati calabresi.
Ma piuttosto che a disagio sono rimasto ora indignato nel leggere la replica di Ayala alle sacrosante reazioni dell’Anm e in particolare del presidente della giunta di Palermo, Nino Di Matteo che dice, e le sue parole mi sento di sottoscrivere pienamente, “L’intervento di Ayala mi lascia veramente perplesso. Evidentemente il collega, anche per la sua lunga militanza politica è da troppi anni ben lontano dalla trincea e dall’attualità delle inchieste e dei processi di mafia. Proprio questa attualità dovrebbe semmai indurre gli organismi preposti ad una rinnovata attenzione”. Nella sua risposta Ayala, che ha perso ancora una volta un’ottima occasione per tacere, replica, quasi ironizzando, definendo Nino Di Matteo “un collega che ha cominciato a muovere i primi passi da magistrato soltanto nel 1993”, quasi che questo costituisse una colpa e senza accorgersi di quanto le sue parole siano tristemente simili a quelle di Francesco Cossiga quando credeva di bollare con l’epiteto di “giudice ragazzino” quel Rosario Livatino la cui grandezza è semmai accresciuta proprio da quella definizione che il Presidente Emerito aveva usato in maniera spregiativa. Poi Ayala non si esime, come è suo costume, di pavoneggiarsi citando i suoi “dieci anni nel pool antimafia e i diciannove anni di vita blindata”. Peccato che del pool antimafia Ayala non abbia mai fatto parte essendo stato il pool diretto dal Consigliere Istruttore Antonino Caponnetto e formato da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, tutti magistrati facenti parte dell’Ufficio Istruzione presso il Tribunale di Palermo. Non ne poteva far parte Giuseppe Ayala che esercitava il suo ruolo di Magistrato presso la Procura di Palermo e che ricoprì il ruolo di Pubblico Ministero al primo maxiprocesso insieme a Domenico Signorino, morto suicida dopo le accuse da parte di Gaspare Mutolo di essersi venduto alla mafia a causa degli ingenti debiti di gioco. Ma Ayala ha sempre giocato sull’equivoco proclamando in ogni occasione la sua appartenenza al pool antimafia e non se ne capisce la ragione , se non quella di volere concentrare l’attenzione su di sé, quando invece dovrebbe essergli sufficiente , senza alterare la verità , citare il fatto di avere, in qualità di pm, sostenuto al processo il procedimento istruito proprio dal pool di Falcone e Borsellino.
Strana coincidenza, questa dei debiti, che accomuna i due pm del maxiprocesso, ma che a uno, Domenico Signorino, costarono il volontario addio alla vita spinto dal tormento del rimorso per aver ceduto ai ricatti della mafia, all’altro, Giuseppe Ayala, soltanto un provvedimento disciplinare da parte del Csm e il volontario trasferimento al tribunale di Caltanissetta nelle more di un inspiegabile ritardo nell’attuazione del provvedimento di spostamento dal tribunale di Palermo per incompatibilità ambientale.
Non conoscevo di persona Ayala prima della morte di Paolo, ne avevo sentito parlare proprio per il suo ruolo di pm al maxiprocesso e dopo la strage di Capaci mi aveva colpito, e non favorevolmente, il suo continuo accreditarsi come l’amico più intimo di Giovanni Falcone, per cui una volta mi capitò di parlarne con Paolo in una delle poche telefonate che avemmo in quei tragici 57 giorni che intercorsero tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio. Mi ricordo che mi disse, in quel dialetto in cui abbiamo sempre amato esprimerci tra di noi, e mi sorprese il tono, quasi di fastidio, che usò allora “chistu l’avi a chiantari, pari ca fussi sulu iddu amicu di Giovanni” (“questo la deve piantare, sembra che fosse solo lui amico di Giovanni”). In seguito ho incontrato Ayala poche volte, in occasione di incontri ai quali eravamo stati invitati entrambi come relatori e ogni volta ho ascoltato quasi con avidità i suoi racconti, è dotato di spiccate doti di affabulatore, di episodi e di aneddoti della vita di Paolo, cosa che faccio ogni volta che incontro una persona che ha avuto l’occasione di condividere con Paolo una parte di quei 23 anni di vita in cui io, che sono andato via da Palermo a 27 anni, gli sono stato, per la maggior parte del tempo, lontano.
Più volte mi è invece capitato, a fronte di episodi nei quali è stato coinvolto Giuseppe Ayala, di sentire la necessità di porgli delle domande, delle domande su pesanti dubbi che mi erano nati a fronte di certi episodi che lo hanno coinvolto dopo la morte di Paolo, ma mi sono sempre trattenuto pensando ai rapporti di amicizia che lo legavano a Paolo di cui mi ha sempre parlato nei suoi racconti. Ma adesso a sentirlo vantarsi, nella sua replica a Nino Di Matteo, del suo “self control”, a sentirlo irridere chi, parlando della situazione attuale in Sicilia parla di “trincea”, scrivendo testualmente: “Accantono ogni pudore. Non credo proprio che riuscirò mai a dimenticare le vittime della barbarie mafiosa di quell’orrendo periodo. Le vedove e gli orfani ai quali ho donato una carezza consolatoria. I miei dieci anni nel pool antimafia e i diciannove di vita blindata. E non aggiungo altro. Altrimenti qualcuno mi accuserà di volere infierire”, dato che il pudore lo ha veramente accantonato, sono io ad abbandonare ogni remora e a fargli finalmente quelle domande che da tanto tempo rimugino nella mente . Perché, se si ha avuto la sorte di partecipare a quei funerali soltanto da spettatore e non da vittima, si deve avere il pudore di non ascrivere a proprio merito le “carezze consolatorie” che si è riusciti a “dispensare” e non si può rinfacciare i propri “diciannove anni di vita blindata” conclusi peraltro con l’abbandono, per di più temporaneo, della magistratura ed il passaggio ad una più agiata vita da parlamentare, a chi invece la vita blindata la conduce ancora oggi.
E allora eccole, rivolte ad Ayala e in attesa di una risposta, le domande che non avrei voluto fare.
La prima domanda riguarda l’Agenda Rossa di Paolo e la sparizione di questa dalla borsa che sicuramente la conteneva dato che la moglie di Paolo, Agnese, gliela aveva vista riporre prima di partire per il suo appuntamento con la morte. Delle circostanze relative al rinvenimento e al prelievo di questa borsa Ayala, che è testimone diretto visto che fu uno dei primi ad arrivare sulla scena della strage, ha dato, in successione e in tempi diversi almeno quattro versioni differenti.
La prima è dell’ 8 aprile 1998 e fu resa quindi da Giuseppe Ayala, che il 19 luglio 1992 era deputato della Repubblica, sette anni prima del coinvolgimento del Capitano Giovanni Arcangioli.
“Tornai indietro verso la blindata della procura anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell’auto. Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore dove notammo tra questo e il sedile anteriore una borsa di cuoio marrone scuro con tracce di bruciacchiature e tuttavia integra, l’ufficiale tirò fuori la borsa e fece il gesto di consegnarmela. Gli feci presente che non avevo alcuna veste per riceverla e lo invitai pertanto a trattenerla per poi consegnarla ai magistrati della procura di Palermo”.
In questa prima versione è dunque un ufficiale in divisa ad aprire la portiera, ad estrarre la borsa e a fare il gesto di consegnarla ad Ayala, ma lui rifiuta di prenderla in mano.
Il 2 luglio 1998, al processo Borsellino Ter, Ayala dichiara di essere residente all’hotel Marbella, a non più di 200 metri in linea d’aria da Via D’Amelio. Sente il boato nel silenzio della domenica pomeriggio. Si affaccia, ma non vede nulla perché davanti c’era un palazzo. Per curiosità scende giù, si reca in via D’Amelio e vede “una scena da Beirut”. Dal momento dell’esplosione “saranno passati dieci minuti, un quarto d’ora massimo”. Dice di non sapere che lì ci abitava la madre di Paolo Borsellino. Camminando comincia a vedere pezzi di cadavere. Vede due macchine blindate, una con un’antenna lunga, di quelle che hanno solo le macchine della procura di Palermo. Pensa subito a Paolo Borsellino. “Ho cercato di guardare dentro la macchina, ma c’era molto fumo nero”. Ayala afferma che proprio in quel momento stavano arrivando i pompieri. Osserva il cratere e poi torna indietro. “Sono tornato verso la macchina, era arrivato qualcuno… parlo di forze di polizia. Ora, il mio ricordo è che a un certo punto questa persona, che probabilmente io ricordo in divisa, però non giurerei che fosse un ufficiale dei carabinieri, (….) ciò che è sicuro è che questa persona aprì lo sportello posteriore sinistro della macchina di Paolo. Guardammo dentro e c’era nel sedile posteriore la borsa con le carte di Paolo, bruciacchiata, un po’ fumante anche… però si capiva sostanzialmente… lui la prese e me la consegnò (….) Io dissi: – Guardi, non ho titolo per… La tenga lei. –“.
In questa versione, leggermente ritoccata rispetto alla prima, non c’è più la sicurezza di un ufficiale in divisa che apre la portiera, ma permane la certezza che sia stata questa persona ad aprire la portiera e a raccogliere la borsa. Ayala, in ogni caso, nega assolutamente di avere preso in mano ed aperto la borsa. “Io poi mi sono girato, sono andato di nuovo verso questo giardinetto, e lì poi ho trovato il cadavere di Paolo (…). Io ci ho inciampato nel cadavere di Paolo, perché non era una cadavere… era senza braccia e senza gambe”.
Le corrispondenti dichiarazioni rilasciate il 5 maggio 2005 dal Capitano Arcangioli, l’ufficiale cui fa riferimento Ayala, sono completamente differenti. Ayala parla di un ufficiale in divisa mentre Arcangioli dice che è in borghese, Ayala dice di avere esaminato la macchina con l’ufficiale mentre Arcangioli dice che Ayala era rimasto in un posto diverso. Ayala dice che la borsa era bruciacchiata mentre Arcangioli dice di no. Ayala dice di avere rifiutato la borsa e di non averla mai aperta ed esaminata mentre Arcangioli dice che addirittura la aprirono e la esaminarono insieme. E’ chiaro che almeno uno dei due mente, se non entrambi.
Il 12 settembre 2005 Ayala cambia completamente versione.
Afferma di essere arrivato sul luogo subito dopo l’esplosione, di avere identificato il cadavere di Paolo Borsellino e di avere notato l’auto del magistrato con la portiera posteriore sinistra aperta. “Scorsi sul sedile posteriore una borsa di pelle bruciacchiata. Istintivamente la presi, ma mi resi subito conto che non avevo alcun titolo per fare ciò, per cui ricordo di averla affidata immediatamente ad un ufficiale dei carabinieri che era a pochi passi. Nell’affidargli la borsa gli spiegai che probabilmente era la borsa appartenente al dottore Borsellino”. Quando gli viene mostrata la foto di Arcangioli, Ayala dichiara: “Non ricordo di avere mai conosciuto, né all’epoca né successivamente il capitano Arcangioli. Non posso escludere ma neanche affermare con certezza che detto ufficiale sia la persona alla quale io affidai la borsa. Per quanto possa sforzarmi di ricordare mi sembra che la persona alla quale affidai la borsa fosse meno giovane, ma può darsi che il mio ricordo mi inganni. Insisto comunque nel dire che l’ufficiale ricevette la borsa e poi andai via. Escludo comunque in modo perentorio che all’inverso sia stato l’ufficiale di cui si parla a consegnare a me la borsa”.
Cambia tutto dunque. Non è più l’ufficiale in divisa ad estrarre la borsa dalla macchina, ma Ayala in persona, che aveva precedentemente escluso di avere mai preso in mano la borsa.
E’ lui a questo punto a consegnarla all’ufficiale e questa volta esclude “in modo perentorio” che sia avvenuto l’inverso.
L’8 febbraio 2006 Ayala modifica di nuovo la propria versione dei fatti: “Ebbi modo di vedere una persona in abiti borghesi (…) è certo che non fosse in divisa, la quale prelevava dall’autovettura attraverso lo sportello posteriore sinistro una borsa. Io mi trovavo a pochissima distanza dallo sportello e la persona in divisa si volse verso di me e mi consegnò la borsa (…). Dato che accanto alla macchina vi era anche un ufficiale in divisa quasi istintivamente la consegnai al predetto ufficiale.”
Cambia tutto di nuovo. Questa volta Ayala si dice certo che la persona non fosse in divisa, ma in borghese. Non fu lui quindi ad estrarla, ma la prese in mano e la consegnò poi ad un altro ufficiale, in divisa. Questa dichiarazione di Ayala è talmente confusa che lui stesso chiaramente sbaglia quando dice “la persona in divisa si volse verso di me”, visto che due secondi prima si era detto certo che non fosse in divisa. La ritrattazione di Ayala non potrebbe essere più traballante e incoerente di così.
La domanda che a questo punto mi preme fare a Giuseppe Ayala è la seguente: ma come è possibile che un magistrato della sua esperienza, abituato a vagliare le deposizioni dei testimoni e degli imputati, possa dare versioni così contrastanti e contraddittorie di una circostanza di cui lui stesso è non testimone ma attore diretto, come è possibile che si sia prestato ad alterare la scena del delitto prelevando la borsa e poi consegnandola ad una persona della quale non ricorda neppure chiaramente se fosse in divisa o in borghese, come è possibile che avendo avuto in mano un reperto così fondamentale come la borsa contenente l’agenda rossa di Paolo non lo abbia protetto per assicurarsi, se egli come dice “non aveva titolo” per prenderlo in consegna, che fosse almeno consegnato ad una persona di sua assoluta fiducia.
Giuseppe Ayala ha avuto in mano l’agenda di Paolo, la cui sottrazione è stata uno dei motivi di quella strage e non la ha saputa proteggere come avrebbe potuto e dovuto?
O c’è qualche altra, agghiacciante, risposta ?
Ma c’è un altro episodio, sempre relativo a Paolo Borsellino che mi ha fatto nascere forti perplessità su Giuseppe Ayala e riguarda l’incontro del 1° luglio 1992 tra lo stesso Paolo e Nicola Mancino nel suo studio del Viminale dove Mancino si era appena insediato come ministro dell’Interno. Io ho sempre sostenuto che quest’incontro non solo ci fu ma che nel corso di esso Mancino parlò a Paolo di quella scellerata “trattativa” che era stata avviata tra la criminalità organizzata e pezzi dello Stato, e di cui Mancino, come da recenti rivelazioni di alcuni collaboratori di Giustizia, costituiva il “terminale istituzionale”. Sostengo anche da tempo che deve essere stata la reazione violenta e senza appello di Paolo a quella proposta che deve avere affrettato la necessità della sua eliminazione e l’attuazione della strage del 19 luglio 1992. Di quell’incontro resta la testimonianza diretta di Paolo che nella sua agendina grigia che, diversamente dalla sua agenda rossa non è stata sottratta subito dopo la strage, annota “1° luglio – Ore 19:30 – Mancino”. Mancino ha però sempre negato l’incontro, sostenendo addirittura, e qui la sua affermazione risulta assolutamente inverosimile, che anche se avesse incontrato Paolo non potrebbe ricordarlo perché “non lo conosceva fisicamente”. E a fronte dell’esibizione da parte mia dell’agenda di Paolo che prova il contrario di quello che egli afferma, ha esibito in televisione una sua agenda ‘planning’, cioè quelle agende che riportano sulla stessa pagina i giorni di tutta una settimana nella quale, per quel giorno, non risulta alcun appuntamento. Ora a parte il fatto che ciò non prova nulla perché l’appuntamento potrebbe non averlo annotato, è la stessa agenda ad essere inverosimile perché in tutta la settimana sono annotate soltanto tre righe e non è pensabile che tutta l’attività settimanale di un ministro della Repubblica, appena nominato, riesca a riempire solo tre righe di un planning.
Su questa storia dell’incontro e dell’agenda Giuseppe Ayala ha dato a Mancino un maldestro assist cadendo anche in questo caso in evidenti contraddizioni come nel caso dell’agenda rossa.
Il 24 luglio del 2009, durante un’intervista ad Affari Italiani, Ayala dichiara: “lo stesso Nicola Mancino mi ha detto che il 1° luglio incontrò Paolo Borsellino. Le dirò di più, Mancino mi ha fatto vedere la sua agenda con l’annotazione dell’incontro”.
Ma poche ore dopo, questa vota sul settimanale Sette ribalta completamente la precedente dichiarazione e afferma: “Si è trattato di un lapsus. In realtà volevo dire che non ci fu nessun incontro. Anzi Mancino tirò fuori la sua agenda per farmi vedere che non c’era nessuna annotazione”.
Ci risiamo, per la seconda volta, e sempre in relazione a Paolo Borsellino, Ayala si contraddice in maniera evidente e fa dichiarazioni che, da magistrato, avrebbe pesantemente contestato a qualsiasi testimone, imputato o collaboratore di Giustizia. E non si tratta di una contraddizione da poco perché riguarda un incontro che, come io ritengo, è stato la causa o almeno ha affrettato la fine di Paolo Borsellino.
Può chiarire Ayala questa contraddizione e questa circostanza? Perché si è prestato a sostenere questa versione e su sollecitazione di chi ha poi ritrattato? Finora non lo ha fatto perché della sua prima dichiarazione esiste la registrazione audio e quindi non può in alcuna maniera affermare di essere stato frainteso.
Un’ultima cosa. Ayala continua a ricordare in ogni suo intervento la sua amicizia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e senza dubbio in un certo periodo della sua vita questa amicizia c’è stata, ma proprio per questo dovrebbe evitare di mercificarla e sono rimasto veramente allibito quando, qualche giorno fa, ho letto testualmente di un “recital-spettacolo“ dal titolo “Chi ha paura muore ogni giorno” nel quale il “consigliere preso la Corte D’Appello dell’Aquila, debutta a teatro” E, in coda è riportato : “Prezzi: Poltronissima 40,00; Poltrona I settore 35,00; Poltrona II settore 25,00; Tribuna 15,00”. Siamo alla svendita dell’amicizia e dei ricordi.
Anche se poi oggi forse non è più tanto conveniente vantarsi di essere stato amico di Paolo, come in tanti, troppi, dopo la sua morte hanno preso l’abitudine di fare, se, come hanno testimoniato due magistrati che lavoravano con Paolo a Marsala, Alessandra Camassa e Massimo Russo, a pochi giorni dalla strage del 19 luglio, essendo andati a trovare Paolo nel suo ufficio alla Procura di Palermo, lo trovarono sconvolto e in pianto mentre, con la testa tra le mani, ripeteva “Un amico mi ha tradito, un amico mi ha tradito”. E nell’ agenda rossa sparita Paolo Borsellino avrà sicuramente annotato anche il nome di quel traditore.
Salvatore Borsellino