Ma anche la fiducia nel comandante del reparto, il generale Mario Mori, sul banco degli imputati con l'accusa di avere favorito la mafia. Torna in Sicilia, stavolta come teste, l'ex pm Alfonso Sabella, "il cacciatore di mafiosi" con all'attivo le catture di boss stragisti del calibro di Luca Bagarella e Giovanni Brusca. Una deposizione di oltre tre ore, la sua, resa ai giudici che processano l'ufficiale e seguita dalla breve apparizione in scena di un altro teste: Sergio De Caprio, nome di "battaglia" Ultimo, l'allora capitano del Ros che arrestò Riina, tornato in aula a ribadire stima e fiducia al comandante dell'epoca, Mori. "E' sempre stato uno di noi", ha detto. Molto più articolata la testimonianza dell'ex pm, che al tribunale che processa l'alto ufficiale e il colonnello Mauro Obinu, ha raccontato i suoi anni in Procura, le indagini, ma anche i veleni e i misteri legati al ritorno in armi dei pentiti capeggiati da Baldassare Di Maggio, lo scontro tra il Ros e l'ufficio inquirenti guidato da Caselli, i retroscena mai chiariti della cattura di Riina "tradito", secondo lui da Bernardo Provenzano.
E poi la trattativa tra lo Stato e la mafia. "Lo Stato - ha tenuto a precisare - non pezzi dello Stato". Un racconto lungo, quello del magistrato, ora giudice a Roma, dopo un'esperienza alla Procura di Firenze e al Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, in cui i fatti, seppure mediati dal ricordo del pm, si alternano a valutazioni personali che, ha ribadito lo stesso teste, "non hanno rilievo in un processo". Del Ros, da un certo periodo in poi Sabella non si è più fidato. "Non mi piaceva il loro metodo", ha spiegato. "Centellinavano le notizie; non si sapeva mai cosa facessero, mentre con le altre forze di polizia non era così". Perplessità generali aggravate da una serie di fatti poco chiari, a dire di Sabella, che videro protagonista il Reparto: come il ritardo nella cattura del capomafia Farinella, lo scontro nato dalla denuncia fatta a Caltanissetta dal capitano De Donno, che puntò il dito contro il pm palermitano Guido Lo Forte, "l'inspiegabile mancata perquisizione del covo di Riina" e le pressioni di due ufficiali per evitare che la Procura appellasse l'assoluzione di un mafioso vicino a Bernardo Provenzano. Ce n'era abbastanza, secondo il teste, per chiedere a Caselli di non dare al Raggruppamento l'esclusiva delle indagini sulla ricerca del padrino di Corleone.
Ma se sulla struttura, sul metodo di lavoro e su alcuni ufficiali il "cacciatore dei mafiosi" aveva delle diffidenze, di Mori non dubitava. "Era ritenuto affidabile", ha spiegato. Tanto che quando il pm della Dna Chelazzi, che indagava sulle stragi del '93, e per primo ipotizzo' l'esistenza della trattativa, gli confidò che aveva intenzione di iscrivere il generale nel registro degli indagati per favoreggiamento aggravato, Sabella si disse contrario. "Secondo me ha agito nell'interesse dello Stato". Una frase che, però, in qualche modo conferma che, a dire del pm, la trattativa ci fu. "Tra lo Stato - dice il teste - e la mafia". E il ruolo del Ros? "Non agiva come le altre forze di polizia - ha spiegato il teste -: acquisiva e usava informazioni su ordine di altri". Chi fossero questi "altri" Sabella non lo dice. "Sono mie valutazioni poco influenti - replica - e riguardano una strategia più ampia relativa all'accordo tra lo Stato e Cosa nostra, ma non ho mai detto che fu il Ros a stipulare il patto".