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26/01/2011 10:44:14

La scelta di Dio - Giornata della memoria

Quanto al silenzio di Dio, fonte, senza dubbio, di turbamento e di sconcerto, il nostro passo di oggi contiene parole di vicinanza e di conforto che Dio stesso rivolge al popolo che ama di un amore viscerale, dicendogli, anzitutto: «Io ti ho scelto». Su questa scelta di Dio sono stati spesi fiumi d’inchiostro, tanto per ribadirla, quanto -specie, nuovamente, da parte cristiana- per rivalutarla nell’ottica del cosiddetto «sostituzionismo», dottrina ecclesiastica che ha affermato a lungo e con conseguenze gravissime (nella teologia e -quel che è peggio- nella storia) il fatto che la chiesa di Cristo è l’erede della cosiddetta nuova alleanza che, in quanto tale, invalida la vecchia, per l’appunto, sostituendosi ad essa. Al posto di Israele -affermano i sostenitori di questa teoria- la chiesa diviene l’erede di quella scelta inizialmente ricaduta sul popolo ebraico: scelta che, nel linguaggio teologico, viene indicata con il termine di elezione. Di fronte alla tragedia immane della Shoah, il filosofo ebreo Hans Jonas ha commentato amaramente: «Si trattò del più grande capovolgimento dell’elezione in maledizione». Propriamente, però, il termine ebraico ื‘ื—ืจ (bahar), che traduciamo con scegliere, non è messo in relazione con una preferenza che implica privilegio, quanto, piuttosto, con una vocazione che comporta responsabilità (parola che viene, appunto, da respondeo e che fa riferimento, pertanto, ad una chiamata, quella di Dio). Dio, dunque, sceglie sì Israele, ma non per farne il destinatario di un trattamento di favore, quanto, piuttosto, perché si aspetta da lui quella risposta che altri popoli non hanno inteso dargli. Dio da Israele si attende disponibilità all’ascolto, apertura alla relazione: a questo scopo, pieno di speranza e di fiducia, gli rivolge un appello, una chiamata: alla quale, come sappiamo, Israele risponderà e continua, sino ad oggi, a rispondere.

A questa scelta singolare, pur non essendo tenuto a farlo, Dio fornisce, nel nostro testo, una motivazione che è poi, a ben guardare, la motivazione, l’unica capace di determinare uno slancio del cuore: l’amore. Dio ha scelto Israele perché lo ama: e questo amore Dio non deve corredarlo di ulteriori spiegazioni, perché l’amore si spiega da sé o, per meglio dire, non si spiega, perché non dà spiegazioni; chi le cerca siamo noi: l’amore ama e basta. Israele non ha credenziali da presentare al cospetto di Dio: non di quelle, almeno, alle quali noi diamo, solitamente, tanto peso. Non possiede nulla, apparentemente, che possa fare in modo che uno sguardo rimanga, a prima vista, attratto, come avviene nei cosiddetti «colpi di fulmine». Ma lo sguardo di Dio è diverso e si posa sul luogo dal quale noi, costantemente, distogliamo gli occhi; e lì scocca quell’amore che gli fa dire, al principio del nostro brano: «Sono legato a voi». «Io a voi, prima che voi a me». Dio, insieme con il Suo popolo, si sente stretto come in un laccio, forte e fragile come ogni legame d’amore. E anche questo amore, come ogni relazione autentica, si fonda su una promessa alla quale Dio, in qualità di amante, rimane fedele. Si tratta di una promessa che Dio ha rivolta, prima che alle persone alle quali sta parlando, ai loro padri -dice il testo-. Di chi si tratta? Normalmente, con questa espressione, il pensiero corre ad Abramo, Isacco e Giacobbe; nel libro del Deuteronomio, però -e il nostro brano di oggi non fa eccezione-, l’espressione viene utilizzata per indicare la generazione che è uscita dal Paese d’Egitto. Queste donne e questi uomini vagheranno Nel deserto (che è il nome che gli ebrei danno al libro che noi chiamiamo dei Numeri) per quarant’anni, numero simbolico che, nella cultura ebraica, sta ad indicare, per l’appunto, lo spazio di una generazione.

Nella pensiero cabalistico, ogni lettera dell’alfabeto ebraico possiede un valore numerico: quaranta corrisponde alla lettera ืž, la nostra «m» che, proprio come in italiano (ma anche nelle lingue neo-latine e un quelle anglosassoni) ha a che vedere con il nome «mamma» (in ebraico ืืž, ‘em), così come con il nome ืžื™ื, maim, «acque». Il popolo amato, infatti, nasce dall’attraversamento delle acque (che, in effetti, «si rompono» nel ventre materno quando un bimbo sta per nascere) e viene letteralmente generato da Dio durante la lunga permanenza nel deserto, là dove, generalmente, è difficile che qualcosa nasca. Eppure Dio fa viaggiare il Suo popolo in direzione dell’assurdo: lo fa uscire dalla schiavitù in cui si era accomodato per fare di lui un popolo itinerante, che vive di una speranza e di una fiducia ancorate in Dio e in Dio soltanto. Questo è il cuore di ogni promessa: un cammino che si costruisce nel presente e che ha di vista un futuro possibile, ma irrimediabilmente incerto. Israele sperimenterà questa itineranza e l’incertezza che la caratterizza nell’arco di tutta la sua storia, che è storia d’amore con un Dio che l’ha scelto e che, in questa scelta, lo accompagna e non lo abbandona. Ecco perché, nelle atrocità inflitte al popolo ebraico, Dio stesso è coinvolto e patisce, riscoprendosi e rivelandosi non solo come il Dio potente che liberò il Suo popolo dalla schiavitù d’Egitto ma, anche, come il Dio sofferente, il Dio capace di immergersi con noi nell’assurdità e nel mistero della persecuzione dell’innocente. È questo stesso Dio che l’ebreo Gesù predica e nelle cui mani consegna la sua vita, certo che Lui soltanto potrà restituirgliela; è lo stesso Dio della croce, speranza degli oppressi di ogni tempo, domanda che rimane aperta e senza risposta, come quella gridata al cielo da Gesù sul Golgota e da milioni di fratelli suoi e nostri nei campi della morte. Domanda che rimane l’ombra che costantemente accompagna ogni fede vissuta fino in fondo: un fondo che spesso si scopre amaro, come quello del calice che Gesù l’ebreo, nell’orto del Getsemani, chiede a Dio di poter allontanare da sé, senza che ciò, peraltro, avvenga. La sofferenza dell’innocente, il patimento del giusto, rappresenta l’aspetto che più di ogni altro mina la fede sin alle sue radici, quello che ci fa correre come nessun altro il rischio di smarrirla, di rinnegarla. Eppure, talvolta, è in questo deserto di senso e di prospettive che Dio getta un seme e fa nascere il fiore inatteso di una fiducia salda, più forte della morte. E fiore sbocciato dalle mani di Dio fu Ettty Hillesum, ebrea tedesca che incontrò la morte, a  soli 29 anni, nel campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia, il 30 novembre 1943. È lei a regalarci queste parole, che sono un monto per noi e, insieme, una carezza sul cuore ferito di Dio:
«Dentro di me c'è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c'è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo. La vita e la morte, il dolore e la gioia,  (…) le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme, e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio - così, per me stessa, senza riuscire ancora a spiegarlo agli altri. Mi piacerebbe vivere abbastanza a lungo per poterlo fare e, se questo non mi sarà concesso, bene, allora qualcun altro lo farà al posto mio, continuerà la mia vita là dov'essa è rimasta interrotta. Ho il dovere di vivere nel modo migliore e con la massima convinzione, sino all'ultimo respiro: allora chi verrà dopo di me non dovrà  ricominciare tutto da capo» past. Alessandro Esposito - 23 gennaio 2010