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25/02/2011 10:00:16

La sapienza e il mistero di Dio

Cenni di polemica con la cultura greca si trovano, ad esempio, negli Oracoli Sibillini, secondo i quali (Sib 3,419-432) Omero sarebbe stato un falsario dei versi e dei metri della sibilla. Altri autori giudeo-ellenisti hanno cercato di provare «l’antichità» di Mosè, fondata soprattutto sulle note cronologiche dei libri sacri. Mosè è il «primo sapiente, il primo che trasmise la scrittura ai Giudei. Attraverso i Giudei pervenne ai Fenici, i quali la tramandarono ai Greci. Egli fu il primo che scrisse le leggi per i Giudei». (Eupolemo, riportato da Eusebio di Cesarea, Praep.Ev. IX 26,1)

La concezione della superiorità della cultura giudaica fondata sulla sua priorità storica portò gli scrittori giudeo-alessandrini a sostenere una dipendenza diretta della filosofia greca dagli scritti ebraici: Pitagora, Socrate e Platone (vissuti tra il VI e il IV sec. a.C) avrebbero così conosciuto la sapienza giudaica. Di fonte al problema del come ciò fosse stato possibile, dal momento che la Torah (i primi cinque libri della Bibbia, conosciuti anche col nome greco di Pentateuco) non era stata tradotta in greco prima della seconda metà del III secolo a.C., il filosofo giudeo-ellenista Aristobulo precisa che ancor prima della conquista di Alessandro Magno e dei Persiani erano stati tradotti un estratto dall’esodo dei Giudei dall’Egitto, la rappresentazione di ciò che è loro accaduto, la conquista della terra promessa e l’interpretazione dell’intera legge (Torah). Egli pertanto non dubita che i tre filosofi greci abbiano conosciuto la dottrina mosaica della creazione. Secondo Aristobulo, quindi, Pitagora avrebbe sottratto molti insegnamenti dalla Torah e li avrebbe adattati al suo sistema, così come Platone avrebbe «seguito» le orme di Mosé, traendo parecchio materiale da questi scritti. Non molto diversamente, secondo la posizione dello storico giudeo-ellenista Giuseppe Flavio, Mosè avrebbe fornito ai filosofi e ai pensatori greci alcuni punti capitali della teologia e in questo senso questi ultimi avrebbero imparato da lui.

Ma gli stessi fautori dell’originalità giudaica e del «plagio» pagano sapevano in realtà che la situazione era tutt’altra. Una tradizione che ritroviamo in Aristea e in Filone d’Alessandria testimonia la totale assenza dal mondo culturale pagano d’ogni traccia di pensiero e legislazione giudaica. Secondo il § 312 della cosiddetta «Lettera di Aristea a Filocrate», che non è altro che un’apologia della cultura e della sofia giudaica, il re Tolomeo Filadelfo si meravigliò di siffatta sapienza, quando gli fu letta la Torah in greco, appena tradotta dai 72 saggi ebrei e disse:«Come mai, essendo compiuta un’opera di siffatta importanza, nessuno degli storici o dei profeti si curò di farne menzione?»

L’argomento dell’antichità degli scritti giudaici venne ripreso nel III secolo della nostra era dagli scrittori cristiani a difesa del cristianesimo nascente. Nel suo Apologeticum (XIX 1 – XXI 1-2; 4-5) Tertulliano, richiamandosi all’origine giudaica delle credenze della nuova religione, affermava che questa aveva le sue radici nella religione giudaica la quale, a sua volta, possedeva scritti antichi che primeggiavano sulla sofia e sulla legislazione greco-romana. La tradizione scritta giudaica, epurata da alcuni elementi che i cristiani rifiutavano, era da considerarsi patrimonio cristiano, dal momento che i Giudei avevano velato le loro profezie e avevano abbandonato la legge divina per vivere come pagani, per cui ora erano condannati a vagare, raminghi per il mondo. Lo scrittore cristiano riconosce certo che i libri sacri sono di proprietà dei Giudei, ribadisce però che il «vero» significato è passato ai cristiani, secondo i quali le profezie ivi contenute si sarebbero adempiute a loro favore. La nazione dei Giudei sarebbe stata sì privilegiata da Dio, la superbia (e soprattutto il non aver riconosciuto il «vero» messia) li avrebbe però declassati ad essere «dispersi, palabundi, et soli et caeli sui extorres vagantur per orbem» (Apologeticum XXI), (dispersi, errabondi, cacciati dal cielo e dal suolo natii vagano per la terra). Questo tratto polemico nei confronti dei Giudei ed apologetico per quanto riguarda l’uso delle Scritture in ambiente cristiano si riscontra già nella lettera di Barnaba (Barn. 4) e ancora più dettagliatamente nella Cohortatio ad Graecos (Esortazione ai Greci, di autore ignoto), secondo la quale (Cohort. §13) il contenuto dei libri sacri è da considerarsi cristiano, dato che la «vera» interpretazione o dottrina è quella cristiana. Nasce così il principio del «canone», il quale non si limita a riconoscere dei libri come «sacri», ma ne afferma l’importanza in ordine al senso delle scritture, senso profeticamente volto all’evento cristiano. In questo modo il cristianesimo rivendica la sua originalità nei confronti della religione madre e pretende di essere la «vera religione» di Mosè, il vero Israele. Pertanto, secondo i padri della chiesa il giudaismo rabbinico, movimento culturale e religioso sviluppatosi nel periodo compreso tra la distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dei romani (70 d.C.) e il 1040 circa, non può discendere sapientemente e perciò teologicamente dalla logica biblica. La Mishnàh (ripetizione, insegnamento), che secondo i rabbini costituisce il contenuto delle Scritture, viene dai padri della chiesa condannata come «espediente, un falso perpetrato da uomini».

La posizione del giudaismo rabbinico fu invece del tutto positiva nei confronti della Bibbia greca. I rabbini non contestavano il fatto che le nazioni avessero letto la Torah scritta, elemento che accomunava Giudei e non Giudei. Secondo la loro terminologia, le «nazioni del mondo», una volta venute a conoscenza della Torah, avanzavano il diritto d’essere diventate il verus Israel, ma per i rabbini non sarà il possesso e la tradizione pura e semplice di libri l’elemento che costituisce la garanzia di verità, ma la ricerca del significato, che costituisce la base ermeneutica della Torah orale, il cui possesso costituisce il «mistero» di Dio. Ciò che sta a cuore dei rabbini è infatti sottolineare che il possesso della Torah scritta non basta a fondare l’appellativo di Israele. L’elezione di Israele si fonda sulla Torah orale, trasmessa da Dio sul Sinai e conservata oralmente nella scuola rabbinica, sul possesso nel suo senso più profondo. La tradizione orale (Mishnàh, Toseftà, Talmud, Midràsh) assurge quindi a discrimine tra Israele e le nazioni del mondo. Il possesso della sapienza si ottiene attraverso l’interpretazione (midràsh) della Torah scritta, interpretazione che ha dato vita a una vasta letteratura midrashica, sviluppatasi nel corso di diversi secoli (II - XIII). Questa si presenta sotto forma di commenti dei versi biblici e si basa sul presupposto che ogni passo biblico sia dotato di una pluralità di significati e di spiegazioni che si susseguono, in un dialogo permanente tra il testo e la comunità interpretante. La sapienza, che fonda l’esistenza del verus Israel, trascende la conoscenza, non è cioè raggiungibile da sé, ma si presenta come sapere rivelato e tramandato mistericamente. La letteratura rabbinica è pertanto interamente percorsa da interpretazioni contrastanti, senza che ciò costituisca un problema particolare per gli esegeti. Nella ricerca del significato «Altro», polisemico, narrativo la presenza di posizioni antitetiche rafforza l’essenza di una teologia concepita essenzialmente come racconto e di un’ermeneutica ricca di valori etici. Secondo la tradizione ebraica la parola rappresenta il luogo della rivelazione, lo spazio in cui abita la divina presenza. Ecco perché l’ermeneutica propria del giudaismo rabbinico verte sulla consapevolezza che le parole umane impiegate a spiegazione della Scrittura non possono esaurire il contenuto del messaggio divino, se non tramite continue approssimazioni. L’unico veicolo che il saggio possiede per avvicinarsi il più possibile al significato delle parole rivelate è dunque la pluralità di sensi.

Forse anche a causa della mancanza di un’autorità centrale che vigilasse sull’uniformità delle credenze religiose, simile al ruolo svolto nella religione cristiana dalla figura del pontefice, nel giudaismo rabbinico non ci sono stati concili ecumenici per fissare il dogma, non si è sviluppata una dogmatica, al contrario, ha sempre regnato una grande libertà di opinioni divergenti, interpretate come la conseguenza necessaria della ricchezza della parola di Dio.

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