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29/10/2011 11:05:41

«Complotto istituzionale» e depistaggi L'inchiesta sbagliata su via D'Amelio

 

La strage di via D'Amelio (Laporta)
La strage di via D'Amelio (Laporta)

ROMA - L'appunto del Servizio segreto civile partì dal centro Sisde di Palermo il 13 agosto 1992, nemmeno un mese dopo la strage di Via D'Amelio che aveva ucciso il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Protocollo numero 2298/Z.3068, diretto a Roma. C'era scritto che da «contatti informali» si potevano prevedere imminenti sviluppi sugli autori del furto della macchina imbottita di tritolo e «sul luogo ove la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell'attentato».
Oggi quell'appunto è senza padre. Nessuno degli agenti all'epoca in servizio tra Palermo e Roma ha saputo spiegarne origine e significato. Nemmeno colui che probabilmente lo firmò, il quale sostiene di non ricordare nulla di quello strano documento. Strano e «inquietante», come lo definiscono i pubblici ministeri della Procura di Caltanissetta nella memoria conclusiva stesa a tre anni dalla riapertura dell'inchiesta sulla strage. Perché a quella data non c'era ancora l'ombra di un pentito che parlasse del garage che avrebbe nascosto la Fiat 126 rubata per l'attentato. Solo un mese più tardi, il 13 settembre, Salvatore Candura cominciò a parlare della macchina fino ad autoaccusarsi del furto «commesso su incarico di Vincenzo Scarantino che gli aveva promesso un compenso di 500.000 lire». Poi arrivò l'altro «collaboratore di giustizia» Francesco Andriotta, decisivo per la successiva confessione di Scarantino. Falsa come quelle di Andriotta e Candura, ma tutte giudicate attendibili e messe a fondamento di condanne definitive. Finché tre anni fa è arrivato il vero ladro della 126, Gaspare Spatuzza, a riscrivere la storia della strage di via D'Amelio.


«Con le spalle al muro»
Dunque la teoria dei pentiti bugiardi fu anticipata da un documento del Sisde sugli imminenti risultati della Squadra mobile palermitana guidata da Arnaldo La Barbera, investigatore sagace e stimato successivamente divenuto questore di Palermo, Napoli e Roma, assurto ai vertici dell'antiterrorismo e dell' intelligence fino alla prematura scomparsa nel 2002. Un depistaggio sul quale continuano a interrogarsi i magistrati di Caltanissetta: fu un «complotto istituzionale» per chiudere in fretta l'indagine sulla morte di Borsellino, oppure un grave ma «semplice» errore investigativo, commesso dopo aver imboccato una strada che era «doveroso» esplorare?
La storia dell'indagine sbagliata, per come è stata ricostruita dalla Procura nissena, non ha sciolto il mistero. Che si alimenta con la clamorosa ritrattazione (successiva al pentimento di Spatuzza) del falso collaboratore Candura. Il quale nell'interrogatorio del 10 marzo 2009 ha ammesso che diciassette anni prima s'inventò tutto. Trasformando la sua confessione in un atto d'accusa.
Riassumono i pm nella memoria inviata alla commissione parlamentare antimafia: «Egli dichiarava di non aver affatto rubato l'auto; di essere stato indotto ad accusarsi del furto e a chiamare in causa lo Scarantino a seguito delle pressioni fattegli dal dott. Arnaldo La Barbera, che l'aveva "messo con le spalle al muro" dopo che lo stesso era stato arrestato per violenza carnale; di aver conseguentemente, a seguito delle minacce fattegli dal dott. La Barbera oltre che della promessa di un consistente aiuto economico da parte dello Stato, deciso ad autoaccusarsi del furto chiamando in causa lo Scarantino che peraltro gli era stato indicato dallo stesso La Barbera come committente del furto; di aver patito durante il periodo della sua "collaborazione" con lo Stato varie minacce da parte dei funzionari di polizia che riguardavano ora la propria incolumità personale, ora quella dei propri figli».
Tre funzionari di polizia che all'epoca collaboravano con La Barbera nel gruppo investigativo Falcone-Borsellino sono tuttora indagati per calunnia in un procedimento parallelo a quello sulla strage che non s'è concluso. Interrogati, hanno negato qualsiasi irregolarità nelle indagini, e tantomeno i maltrattamenti denunciati dai falsi pentiti. Le cui dichiarazioni più recenti presentano ancora, secondo gli inquirenti, elementi di ambiguità e di incertezza. Tuttavia una spiegazione alle bugie ci deve essere. Anche a quelle di Francesco Andriotta, che raccontò di aver ricevuto in carcere le confidenze di Scarantino sulla sua partecipazione all'attentato di via D'Amelio, ne riferì ai poliziotti finché lo stesso Scarantino si convinse a collaborare con i magistrati. Ma dopo la nuova verità di Spatuzza, pure Andriotta ha fatto marcia indietro. Precisando, tra l'altro, che «nulla sapeva della strage, di non essere stato lui a "costruire le cose" bensì il dott. Arnaldo La Barbera, e che mai Scarantino gli aveva rivelato particolari sulla strage per la quale, anzi, si era sempre protestato innocente».
Nell'ultimo interrogatorio del 24 febbraio scorso, riferendosi a un particolare delle indagini di 17 anni fa, il falso pentito ha detto: «Feci quelle dichiarazioni perché i poliziotti che le Signorie Loro mi menzionano mi diedero degli appunti che contenevano ciò che avrei dovuto riferire ai magistrati». E ai pm che gli domandavano se confermava quanto aveva riferito in un precedente verbale, «e cioè che ogni volta che incontrava i magistrati per essere interrogato, poco prima aveva un colloquio con i funzionari di polizia che gli suggerivano gli argomenti di cui avrebbe dovuto parlare», Andriotta ha risposto: «Confermo».


«Eclatante forzatura investigativa»
A conclusione degli accertamenti svolti finora, gli inquirenti affermano che «non si evidenziano elementi decisivi per riscontrare o cestinare l'ipotesi di una "eclatante forzatura investigativa" spintasi sino alla creazione delle false dichiarazioni di Andriotta in merito alle confidenze dello Scarantino sotto la regia degli uomini del cosiddetto Gruppo Falcone-Borsellino». Tuttavia, gli stessi pubblici ministeri scrivono: «Il probabile innamoramento di quel tortuoso sentiero che non si volle più abbandonare, nonostante alcune più o meno palesi incongruenze che provenivano dalle prime fonti di accusa, autorizza oggi questo Ufficio ad avanzare anche l'ipotesi che gli investigatori possano aver operato "forzature" più o meno spregiudicate, facendo ricorso all'aiuto di personaggi che non si possono definire certo "disinteressati"». E infine: «Accanto alle altre ipotesi prospettate, è con pari logica sostenibile che possa esservi stato un vero e proprio "indottrinamento" di Andriotta da parte degli investigatori».
Insomma, resta l'alternativa tra errore in buona fede e falsa pista costruita a tavolino. E a gettare un'ulteriore ombra è la deposizione di un ex poliziotto che all'epoca faceva parte del gruppo Falcone-Borsellino e in seguito ne fu allontanato, Gioacchino Genchi, discusso consulente di molte inchieste giudiziarie: «Ricordo che nel maggio 1993 Arnaldo La Barbera, piangendo, mi disse che doveva diventare questore e che le indagini sulle stragi, faccio riferimento a quella Borsellino, dovevano prendere una certa piega, nel senso che non si poteva più mantenere un'ampia impostazione delle stragi, ma bisognava focalizzare solo quei dati concreti che potevano portare ad immediati risultati, più limitati, ma concreti...».
Come quello garantito dalla pista Candura-Andriotta-Scarantino, oggi sconfessata da Spatuzza. Ma le dichiarazioni di Scarantino non preoccupavano affatto Giuseppe Graviano, il capo-mafia autentico regista della strage di via D'Amelio. Forse gli facevano persino comodo, poiché spostavano l'attenzione dalla sua cosca ad altre. L'ha ricordato uno degli ultimi pentiti considerato attendibile dagli inquirenti, Fabio Tranchina, autista del boss di cui ha svelato il ruolo di esecutore materiale dell'omicidio Borsellino. Del presunto mafioso che riempiva verbali su verbali, Giuseppe Graviano disse: « Parrassi, parrassi quantu vuoli ». Parlasse, parlasse quanto vuole. Lui sapeva che la verità era un'altra.
 


29 ottobre 2011 - Il Corriere della Sera