Alcuni di loro sono in carcere, e scontano altre condanne: è il caso di Vittorio Tutino, che aiutò Spatuzza a rubare la 126. Alcuni sarebbero invece ancora liberi. E per il pool coordinato dal procuratore Sergio Lari è una corsa contro il tempo per cercare riscontri alle accuse fatte dai pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina.
Ecco dunque la prima scadenza che aspetta i magistrati di Caltanissetta: l'inchiesta sugli esecutori materiali della strage Borsellino. Se prima non ci sarà una condanna contro i veri sicari di via d'Amelio non potrà esserci la revisione del processo per gli otto innocenti, questo ha ribadito la Corte d'appello di Catania nei giorni scorsi. E se non ci sarà la revisione, difficilmente, potrà scattare il maxi risarcimento dello Stato per chi è stato ingiustamente in carcere per diciotto anni.
Il procuratore Sergio Lari non azzarda tempi per la conclusione dell'inchiesta. Ma di certo, ci sono già alcuni punti fermi che al di là dei nomi dei responsabili riscrivono buona parte della strage Borsellino. Buona parte, e non tutta, perché l'inchiesta di Caltanissetta non intacca la ricostruzione del processo Borsellino ter e di parte del Borsellino bis, che già avevano individuato le responsabilità dei boss di Brancaccio (nella fase esecutiva) e di quelli di Porta Nuova, Noce e San Lorenzo (nelle perlustrazioni fatte la mattina del 19 luglio).
Ecco i punti fermi, e inediti, che il procuratore Lari, i suoi aggiunti Nico Gozzo e Amedeo Bertone, i sostituti Nico Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani hanno messo nero su bianco nella memoria di 1139 pagine depositata alla Corte d'appello di Catania: c'era una talpa della mafia nel palazzo di via d'Amelio dove abitava la mamma di Borsellino, e occupava un appartamento a piano terra, un posto ideale per tenere sotto controllo i movimenti del giudice, ma anche per organizzare la sistemazione della 126 carica di esplosivo. Secondo i pm, la talpa sarebbe Salvatore Vitale, ufficialmente solo il gestore del maneggio "Palermitana equitazione salto ostacoli", in realtà era un uomo d'onore di Roccella molto vicino a Giuseppe Graviano, così ha spiegato Spatuzza. Vitale è stato già condannato a dieci anni, per mafia, al Borsellino bis, e poi all'ergastolo, per l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo.
Ecco un'altra certezza, secondo la nuova inchiesta: il telecomando fu azionato dal boss Giuseppe Graviano, che era nascosto dietro al muro del giardino di via d'Amelio. L'ha rivelato Tranchina, ex autista di Graviano. I pm cancellano dunque l'ipotesi che il commando fosse appostato al Cerisdi, il castello di Monte Pellegrino ritenuto sede di un qualche servizio deviato. Scrive Lari: "Le indagini svolte hanno fatto concludere per l'infondatezza della ricostruzione avanzata dal dottor Genchi, che appare una delle tante "ipotesi investigative" prive di riscontro che vengono poi recepite sui mass-media come se fossero verità acquisite e che, invece, lungi dal fare emergere la verità, la coprono di una ulteriore cortina fumogena".
Ma attorno al Cerisdi restano altri misteri: i sospetti di Genchi sono stati confermati dal pentito Angelo Fontana, ex boss dell'Acquasanta ("Vincenzo Galatolo mi disse che Gaetano Scotto andava verso l'Utveggio per incontrare persone dei servizi". Scotto è fra gli scagionati della strage, ma i pm di Caltanissetta hanno aperto comunque un nuovo fascicolo d'indagine, che è parallelo ad un altro delicato capitolo già all'esame della Procura, quello relativo alla scomparsa dell'agenda di Borsellino. Scrivono i pm: "L'eventuale ruolo di soggetti esterni a Cosa nostra potrebbe incidere sui tempi e le modalità di attuazione di una strage già programmata da parte dell'organizzazione mafiosa". Ma i servizi deviati restano ancora solo un'ombra.