Il romanzo sulla storia della revoca di centinaia di 41bis a boss e gregari mafiosi si ingrossa di nuove pagine, nel tentativo di far luce su uno dei periodi più oscuri del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica italiana.
A fornire nuovi pezzi del puzzle che la procura di Palermo sta cercando di mettere assieme ci pensa Adalberto Capriotti, direttore del Dap dal luglio del 1993 all’aprile del ’95, periodo in cui – praticamente sotto silenzio – oltre 300 provvedimenti per il carcere duro non sono stati rinnovati. Ma lui non si è accorto di nulla. Lo dice al procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, all’aggiunto Antonio Ingroia e ai sostituti Nino Di Matteo e Lia Sava, in un interrogatorio del 14 dicembre 2010.
Adalberto Capriotti proveniva dalla procura generale di Trento quando nel luglio del 1993 è stato chiamato a guidare il Dap al posto di Nicolò Amato. E subito si sarebbe visto praticamente imporre “un personaggio importante ma come un turbine, una tempesta, ed era il collega Franco Di Maggio” (stimato magistrato milanese deceduto nel 1996). Secondo la sua opinione sarebbe stato il gabinetto del Guardasigilli, Giovanni Conso, a imporre la nomina. “Lì dovete guardare” dice Capriotti ai magistrati, citando Livia Pomodoro e Liliana Ferraro. E va oltre: “Ebbi l’impressione che (a) Conso a sua volta gli fu imposto” dice aggiungendo un aneddoto ancora inedito. “Una volta ho assistito a violentissima lite, sempre per ragioni di ufficio, fra Conso e questo Di Maggio e io mi misi di mezzo perché Di Maggio, oltre a dargli del tu, lo insultava e insomma io non potevo permetterlo, e per la mia posizione e perché Conso era il nostro ministro, era il nostro ministro e questo non si può fare”.
Ma quando si chiede il motivo della lite, Capriotti non sa rispondere. “Non lo so ma probabilmente… ho visto un mucchio di carte così (…) entrai quando già era in atto questo diverbio”. L’elemento, oltre il “colore”, è interessante per le indagini perché lo stesso Capriotti conferma come Di Maggio si occupasse prevalentemente della proroga dei 41bis. Molti dei quali erano in scadenza il primo novembre del 1993. Gli inquirenti tirano fuori un documento del Dap, datato 29 ottobre 1993, in cui si chiedeva a diverse autorità, dalla magistratura alle forze dell’ordine, un parere sull’eventuale proroga del provvedimento a oltre trecento persone detenute. “Non le sembra diciamo in qualche modo tardiva questa richiesta rispetto a un blocco di centinaia di 41 bis, alcuni dei quali, anzi la maggior parte dei quali scadeva il 1° novembre ’93?” – chiede il pm Nino Di Matteo, ottenendo risposta affermativa.
Tutto gira intorno al 41 bis. “I primi mesi furono abbastanza corposi come 41 bis – racconta Capriotti – e questo venne a creare un certo clima, se ne parlò anche nel Comitato ma tutti parlavano ma nessuno… l’unico che veramente era a conoscenza delle nostre cose era il capo della polizia Parisi”. L’unico, secondo Capriotti, a capire l’esplosività del tema, “lui riteneva che forse era eccessivo in quel momento, anche perché appena io presi possesso, mi pare nel luglio, correggetemi, successero, scoppiarono le bombe”.
E parte un altro racconto inedito: “Fummo svegliati alle due di notte e portati a Palazzo Chigi dove già c’era Ciampi (…) in quell’occasione parlavano… fecero ipotesi, Ciampi a sua volta stava, si trovava in argomenti non di Banca d’Italia da… e ricordo e qui bisogna dare atto ad alcuni fra cui io, quindi che avevo torto, in quel momento era in corso un contenzioso forte con gli ex territori della Jugoslavia, ne successero eh di cose del genere, Milano… e in sostanza allora la questione fu divisa, Parisi era per la mafia, disse che sicuramente questione di mafia, io e qualcun altro diciamo: potrebbe essere dall’estero, che siano stati i croati, così… sbagliato in pieno, da quello che poi avete visto, Parisi aveva ragione, ma Parisi probabilmente parlava perché qualcuno gli aveva soffiato, ecco”.
Un evento “straordinarissimo” sostiene Capriotti, “tanto straordinario che io mi ricordo perfettamente, c’era Ciampi che non sapeva più… che pesci prendere”. E che cosa si decise in quel comitato per l’ordine e la sicurezza straordinarissimamente convocato a Palazzo Chigi? Nulla. “Che i carabinieri e la polizia immediatamente intervenissero per vedere un po’ l’origine” risponde Capriotti aggiungendo che fu chiesto l’impegno anche dei servizi segreti. La riunione sarebbe finita verso l’alba e, scendendo le scale e giungendo all’ingresso, il direttore del Dap si trova di fronte al suo vice: “Anche in questa occasione, che Di Maggio lo trovai di sotto, cioè Di Maggio non fu ammesso” ma ha atteso all’ingresso. “Che avete deciso, che avete deciso?” sarebbe stata la domanda posta da Di Maggio.
Dopo tanto tergiversare, i magistrati mettono Capriotti con le spalle al muro: “Sotto la sua gestione, a novembre del 1993, furono non prorogati circa oltre 300 posizioni fra cui io ho letto qua l’elenco, anche noti capimafia, come lo spiega?”. Ed ecco la risposta: “L’amministrazione ha valutato e se ha valutato bene è un altro paio di maniche, che non convenisse prorog… riandiamo al discorso qualcuno forse ha suggerito… ecco, questo è”. Ma del “grande suggeritore” non c’è traccia, “certo il ministro era a conoscenza di questa revoca” aggiunge Capriotti che sostiene di non essere mai stato informato da nessuno della mancata proroga dei provvedimenti.
La mafia alzava il tiro, metteva bombe a Milano, Firenze e Roma, trecento boss venivano messi fra i detenuti comuni e nessuno si è accorto di niente. Perché? Lo spiega, candidamente, lo stesso Capriotti. Quando è stato messo a capo del Dap, dice, non si sarebbe informato sullo stato dei provvedimenti di proroga per il 41 bis, non aveva una delega specifica: “Oh e non la volevo (…) poteva avvenire che io fossi chiamato su un determinato punto di un 41 bis perché era, lei lo capisce, era una rogna”.