Correva il settembre del 1837. La furia del colera si era spenta a Palermo da poche settimane, e già il cavalier Vincenzo Pergola dedicava a “Sua Eccellenza Marcello Fardella duca di Cumia, gentiluomo di camera di Sua Maestà, cavaliere di Gran Croce del R. O. Costantiniano, ecc., ecc., e direttore generale della polizia medesima in Sicilia” un opuscolo di cinquantadue pagine, grondanti lacrime, terrori, e inni alla rinnovata speranza in un futuro di grazia, di luce universale e di redenzione; e intitolava quell’opuscolo, stampato dalla Tipografia del Giornale letterario in via Maestra dell’Albergaria n. 240, Descrizione istorica del cholera asiatico avvenuto a Palermo in quest’anno 1837.
L’enfasi di quella descrizione, che ben presto si rivela tutta intesa alla lode del governo borbonico, dei suoi eroici e fedeli sudditi siciliani, e del suo operato durante i giorni terribili della strage, ha in realtà un suo fosco retroscena, un sottinteso significato, una precisa, puntuale, e fatalmente grottesca ragione politica. Che una rapida rievocazione degli avvenimenti di quell’estate lontana basterà, spero, a riportare alla luce, a ennesima ed eterna conferma di un principio che mai si vide decadere nei tempi delle più cupe tragedie umane: anche allora si volle colpire un responsabile, si gridò al veleno, si cercò l’untore, e poiché allora il vento della storia soffiava avverso ai Borboni, non si tardò ad additare nel re, Ferdinando II, il vero, satanico cavaliere segreto di quell’immane apocalisse.
(Trent’anni più tardi, caduti i Borboni, e regnanti i Savoia sull’Italia unita, una nuova ondata di colera trovò gli animi dei siciliani assolutamente immutati, e naturalmente pronti a mormorare contro nuovi e fantastici untori e complotti politici governativi, com’ebbe a ricordare anche Giovanni Verga nell’undicesimo capitolo dei Malavoglia: «Lui invece, se gli avessero portato la ricetta del medico per qualche medicina, avrebbe aperto la spezieria anche di notte, che non aveva paura del colera; e diceva pure che era una minchioneria di credere che il colera lo buttassero per le strade e dietro gli usci. – Segno che è lui che sparge il colera! – andava soffiando don Giammaria. Per questo nel paese volevano fargli la festa allo speziale; ma lui si metteva a ridere come una gallina, preciso come faceva don Silvestro, e diceva: – Io che sono repubblicano! Se fossi un impiegato, o qualcuno di quelli che fanno i tirapiedi al Governo, non direi! –»).
Quasi due secoli fa, a Palermo, le condizioni della pubblica igiene non erano assai peggiori di quelle odierne (l’indignazione di Goethe per i cumuli di munnizza lasciati imputridire nelle strade ne aveva già reso vana testimonianza un altro mezzo secolo prima); e scavalcando appunto il marciume delle tradizionali fitinzìe abbandonate, una turba di fimmine si era diretta e radunata, in quel soffocante pomeriggio di mercoledì, 7 giugno 1837, sotto la volta austera della Madonna della Catena, a snocciolare, gemendo, rosari d’invocazione contro il terribile morbo del Bengala, il colera assassino che già seminava lutti nel Napoletano, alitando sull’Isola il suo fiato di morte.
Del Cholera morbus si parlava ormai dall’agosto del 1817, quando la pestilenza si era messa in viaggio da Calcutta verso la Siberia, la Nuova Olanda, l’isola di Timor e la Cina. Dopo aver placato a Oriente la sua onda velenosa sterminando quattro milioni di cinesi, l’epidemia aveva aggredito nel 1830 la Russia, precipitando nel lutto Mosca e Pietroburgo, per proiettarsi subito dopo in Polonia, in Boemia, in Galizia, in Austria e in Ungheria. Il 26 marzo era apparsa a Parigi, dove nel giro di poche settimane aveva mietuto oltre diciottomila vittime.
Ma per molti anni, in Sicilia, del colera si erano uditi solo fantastici racconti dalle truci ed esotiche tinte. È vero, sì, che il 25 luglio del 1831 il viceré Leopoldo, conte di Siracusa e fratello di re Ferdinando, aveva ordinato di «stabilirsi lungo le spiagge un cordone sanitario a cautela contro il cholera»; ma il giovane conte, che allora era appena succeduto nel governo dell’Isola all’inviso e corrotto marchese delle Favare, aveva soprattutto mirato, con quel proclama, ad accattivarsi le simpatie dei sudditi, offrendo loro un bell’esempio di amorevole sollecitudine, per altro non richiesta dai più spavaldi e ignoranti tra i campioni del popolo: fra la plebe, a quei tempi, un po’ per esorcistica celia, e un po’ per effettiva credenza, circolava infatti un triviale proverbio scaramantico: fatt’amicu cu’ la vutti, c’u culera nun ti futti. E il vino forte della Sicilia sembrava più indicato degli altri a far da antidoto alla nuova peste.
Nel 1836, però, il morbo aveva superato le Alpi ed era esploso nell’Italia settentrionale. In agosto aveva raggiunto Ancona, e re Ferdinando da quel momento aveva dato ordine che si interrompessero le comunicazioni tra i suoi domini e gli Stati Pontifici, vanamente sperando di sbarrare il passo all’epidemia. Ma fu questione di poche settimane. Il 2 ottobre il colera s’abbatté anche su Napoli, dove uccise quasi quattordicimila persone nel giro di pochi mesi. Lo sventurato e peregrinante Giacomo Leopardi si stabilì nella capitale borbonica il 5 ottobre, subito lodando in una lettera a suo padre la “dolcezza del clima” e la bellezza della città, che gli parvero un balsamo per i suoi malanni. La risposta di Monaldo gli giunse tre mesi dopo, e il poeta a sua volta chiariva: «La confusione causata dal cholera e la morte di tre impiegati della posta potranno forse spiegarle questo ritardo». Nel marzo del 1837, Giacomo scrisse nuovamente al padre: «Io, grazie a Dio, sono salvo dal cholera, ma a gran costo». La sua fibra stremata si spezzò il 14 giugno.
Esattamente una settimana prima, a Palermo, in un vicolo della Kalsa, un grido di donna aveva infranto l’onda ritmica delle litanie e il torpore degl’incubi sospesi. Dopo breve agonia era morto un giovane marinaio, di nome Angelo Tagliavia. Di lì a poco, in una casa accanto moriva tra gli spasimi più atroci un altro giovane marinaio, Salvatore Mancini, compagno del Tagliavia.
«Sono morti di colera» fu subito la voce della gente. Ed era vero. La Kalsa fu invasa da una folla angosciata, trepidante, ma anche sprezzante e incosciente. Dalle case dei morti si alzavano volute di suffumigi profumati; forse incensi, bruciati da chi – un sacerdote, un frate? – sperava con essi di purificare l’aria ammorbata dal colera. E tra la gente c’era chi ghignava: «Li ammazzano coi fumi, li ammazzano!». Le prime vittime avevano appena esalato l’anima, e già vi era chi insinuava, per boria o per sarcasmo, e senza magari rendersene conto appieno, l’eterno, immancabile grido di stolida difesa: li ammazzano, ci ammazzano! E un filo di fumo era bastato a evocare quel fantasma.
Già verso la fine dell’anno precedente, a Napoli, gli avversari del governo avevano approfittato del colera per seminare tra la gente il sospetto che lo stesso sovrano fosse l’occulto capo di una setta di avvelenatori. I politicanti “liberali”, che si dicevano eredi della ragione illuministica contro la barbarie oscurantista, brandivano ora, con abiette mormorazioni, l’arma superstiziosa della caccia all’untore per suggestionare la plebe e scatenarla contro l’odiato tiranno. E per Napoli circolavano strane voci, favole grottesche da sabba infernale: il re possiede, e con studiata ferocia nasconde, la miracolosa teriaca del colera, una certa, misteriosa “erba Botris” ch’egli somministrava solo a se stesso e ai membri della sua famiglia, per salvarsi dal flagello diabolico ch’egli stesso, forse, con arti malvagie rinfocola e sparge.
Ma Ferdinando non si lasciò mettere nel sacco; mostrò, invece, coraggio e intelligenza. Il futuro Re Bomba, vittima designata delle magnifiche sorti e progressive, scese tra la gente dei quartieri più poveri, entrò nei lazzaretti, mangiò pubblicamente il pane che si diceva avvelenato, elargì forti somme per la cura dei malati e il soccorso di vedove e orfani. Ben pochi credettero che il sovrano, nottetempo, si divertisse a diffondere nell’aria fumi esiziali, o a infettare con micidiali polverine l’acqua dei pozzi e la farina dei fornai. E la rabbia popolare si spense prima ancora di divampare.
Ma in Sicilia, dove il governo napoletano era sentito da molti come un giogo straniero, le cose erano destinate a prendere tutt’altra piega. Alla fine di agosto si conteranno sessantacinquemila e 256 morti in tutta l’isola, dei quali quarantamila nella sola Palermo; e di questi, la maggior parte soccomberanno in soli quaranta giorni, da quel fatale 7 giugno al 17 luglio, data in cui la virulenza del morbo, per sue cause imperscrutabili, inizierà ad attenuarsi.
Mentre il colera apriva la danza macabra della strage, la città sbandava e si disgregava. Scuole e tribunali chiudevano, il commercio era paralizzato, scarseggiavano i viveri, il popolo fuggiva verso la campagna mentre i ricchi si barricavano nei loro palazzi. Intere case si svuotavano, banditi e sciacalli si scatenavano, le madri morivano per non separarsi dai figli agonizzanti, le processioni dei penitenti s’inerpicavano su pel Monte Pellegrino a implorare il soccorso della pietosa Vergine Rosalia.
Sul gran teatro del mondo balenarono drammaticamente in quei giorni tutti i raggi e i riflessi della sublimità e della miseria umana. L’unica legge imparziale era quella del morbo, che non risparmiava nessuno, e uccideva indiscriminatamente. Morivano come le mosche gli abitanti dei quartieri più poveri, moriva il barone asserragliato nel suo palazzo barocco, moriva l’energumeno che aveva violentato la fanciulla resa orfana dal colera, morivano insieme, nello stesso letto, gli sposi innamorati che avevano preferito la morte alla separazione, moriva il religioso che si era prodigato per gl’infermi, moriva persino la monaca di clausura nella sua cella.
Nel riferire gli esiti della catastrofe, e nel descrivere le sofferenze inflitte dal morbo alle vittime, Vincenzo Pergola scrive la pagina più intensa e vera del suo retorico opuscolo: «Dapertutto non più umane fisonomie vedevi, ma larve attonite, scarne, dolenti, e con lo spavento in su gli occhi. Tutte queste stragi faceva la pestilenza, la quale tanto più accresceva il raccapriccio, l’orrore e la desolazione, quanto più orribile faceva divenire la faccia dell’infermo! E quale e quanta atroce si fosse nel travagliare l’addolorato corpo de’ mortali, non è a dirsi, o pensarsi. Giacché dal momento più inopinato di perfetta salute, improvvisamente ammalandosi l’uomo, nel volger brevissimo di poche ore, tutti pativa gli strazii, che offrir possano le infermità tutte della terra. Sete ardentissima, indomabile, né per addensate acque, né per neve istessa, che somministrar si potesse continuamente, come se divoratrice fornace ne arroventasse le interne pareti delle viscere. Inquiete, intollerabili, spessissime ambasce, che né per mutar di sito, né per cangiar di posto, sostavano alquanto dal tormentarne le desolate membra. A questo univasi un lamentar cupo, un singhiozzare interrotto, un grondar freddo sudore, che dolori a dolori accresceva. Da quinci innanzi farsi incavernato nero nero lo sguardo; incavernate le tempia; le narici impicciolite e compresse; livide, e contorte le labbra; sconvolto, ed appassito il mento; ritirata la pelle; contratte le mani; fievole, e roca la voce: finché irrigidite le estremità, non si attendeva che serrarsi il varco alla vita».
E mentre la strage si consumava, il fantasma del veleno si agitava sempre più nelle fantasie stravolte, per completare a tutti i costi il quadro di quell’orrore universale. In Sicilia erano pochi ad avere dubbi: la pestilenza era l’opera diabolica di untori stranieri, al soldo del tiranno napoletano. A Palermo persino molti intellettuali credettero nella tesi del genocidio. Del resto, non fu proprio la classe intellettuale una di quelle che maggiormente subirono l’assalto del morbo? Basti dire che in quei giorni morirono personaggi come Domenico Scinà e Nicolò Palmeri, sommi della cultura del tempo. E si racconta che lo stesso arcivescovo di Palermo, il settantenne cardinale Gaetano Maria Giuseppe Benedetto Placido Vincenzo Trigona e Parisi, il 5 luglio spirasse dicendo: «Non v’è rimedio per questo veleno» (idea giustificabile, per lui, dal momento che la sua sfilza di nomi, di alte cariche e di santi protettori non era stata in grado di salvarlo). La Sicilia agonizzava maledicendo il Borbone; ma quando il contagio si accanì nelle contrade orientali dell’isola, l’odio per l’untore si tramutò in sommossa, e ben presto degenerò in cieca violenza.
A Siracusa un anziano avvocato, Mario Adorno, si pose alla testa della rivolta con proclami deliranti. Proprio allora in città era incappato per disgrazia un girovago tedesco, tale George Schwentzer, che assieme alla famiglia e a una coppia d’inservienti riusciva a campare con fantasiosa onestà offrendo alla gente lo spettacolo del cosmorama: una camera ottica che ingrandiva immagini di paesi lontani, dando l’illusione di ammirare davvero le cime delle Alpi o le maestose anse del Reno. Ma un giorno la folla imbestialita, che a causa di quell’innocente scatolone vedeva ormai in Schwentzer una sorta di malefico stregone, si avventò sul tedesco, sbriciolò il cosmorama e tentò di linciare il mago e i suoi amici. Intervenne la forza pubblica, la folla si scagliò su un commissario e lo trucidò a bastonate, pugnalate e colpi di pistola. Gli amici del tedesco subirono la stessa sorte.
Schwentzer salvò per quel momento la pelle e finì in prigione. Pochi giorni dopo, però, i facinorosi assaltarono il carcere, ne strapparono il poveretto insieme alla giovanissima moglie, alla figlia piccina e ad altri quattordici innocenti: di tutti venne fatto orrendo scempio in piazza. Sola scampò all’eccidio la bimba, che per miracolo fu sottratta all’ira dei forsennati da una donna, illuminata da una fiamma di pietà.
Ma in settembre, con la certezza che il cholera morbus volteggiasse ormai, lontano, su altri di lidi, ecco il ricordo di quelle atrocità dissolversi, e la fede nella vita, e nel governo (perché no?) quasi per tocco di magia risgorgare nei cuori sollevati. E il nostro Vincenzo Pergola chiudere la sua Descrizione istorica con queste radiose parole: «Così dagli animi furono banditi i timori, le ore scorsero di giorno in giorno più liete, e di bel nuovo annunziatrice di bei giorni sereni spuntava gaia e ridente su i nostri colli l’aurora».