Così come ogni altro vangelo, anche quello secondo Giovanni fu scritto, come è ovvio, a distanza dagli eventi che vi si narrano; di più: quello giovanneo è detto, non a caso, «quarto vangelo» perché, oltre a contenere molteplici differenze riguardo alla narrazione dei cosiddetti «sinottici» (Marco, Matteo e Luca), è anche l’ultimo dei vangeli scritti in ordine di tempo. Ci troviamo, con ogni probabilità, a circa sessanta, forse persino settant’anni dalla condanna a morte di Gesù. Ovviamente, però, ogni testo, così come ogni persona, ha una sua storia: perciò, prima di assumere la forma che noi oggi conosciamo, il vangelo di Giovanni ha attraversato un lungo ed assai complesso periodo di formazione. La composizione del «quarto vangelo» è estremamente difficile da ricostruire, anche perché persino i maggiori esperti dello scritto giovanneo non sono concordi circa l’individuazione del suo ambiente: alcuni sostengono che esso fu redatto nella città di Efeso, in Asia Minore, sulla sponda turca del mare Egeo.
Ma questa ipotesi, in verità, si fonda su una tradizione che ha molto di leggendario e assai poco di storicamente attendibile. Secondo altri studiosi l’evangelo vide invece la sua nascita ed il suo sviluppo nell’area settentrionale della Palestina, in un luogo, dunque, non distante da Gerusalemme e dalla Giudea: il che spiegherebbe la notevole conoscenza che l’autore sembra possedere della tradizione culturale e religiosa ebraica.
Quel che è certo è che, presso la comunità alla quale l’evangelo si rivolge, il rapporto tra la figura di Giovanni il battista e Gesù non era del tutto chiaro: alcuni, difatti, con ogni probabilità, erano convinti che il messia fosse Giovanni e non Gesù; convinzione che costringe l’autore dello scritto ad effettuare alcune curiose e niente affatto casuali sottolineature.
Qual era, però, in una situazione di conflitto strisciante, il modo migliore che l’autore aveva a disposizione per portare avanti la sua tesi, secondo cui era Gesù e non Giovanni il messia promesso ad Israele? Se lo avesse sostenuto in prima persona, molti dei membri della sua comunità avrebbero continuato a manifestare, del tutto legittimamente, le loro perplessità. Si sarebbero limitati a dire: «Beh, sappiamo perfettamente che la tua convinzione è che fosse Gesù il messia; ma noi continuiamo a credere che fosse il battista». Un motivo su tutti era determinante e, a parere di molti, forse persino dei più, estremamente convincente: Gesù era stato discepolo del battista. Come affermare, dunque, che il discepolo fosse più grande del suo maestro? Nella cultura del tempo si trattava di un qualcosa di impensabile. Che il messia, poi, avesse avuto un maestro, era un’ipotesi che non poteva nemmeno essere presa in considerazione.
L’autore del quarto vangelo, si trova dunque in questa situazione complessa e delicata: «Come posso convincere – si chiede – i miei compagni di cammino del fatto che fosse Gesù il messia e non Giovanni, sebbene quest’ultimo sia stato il suo maestro?». Alla fine incontrò la soluzione più ingegnosa: «Ho trovato: lo farò dire allo stesso Giovanni». Il nostro testo, difatti, incomincia dalla descrizione di un episodio curioso, portato alle orecchie del battista da alcuni dei suoi discepoli, che gli dicono: «Rabbi, colui che era con te al di là del Giordano, al quale tu hai reso testimonianza, ecco: questi immerge e tutti vanno da lui». Soffermiamoci su questa frase, tanto breve quanto densa. Com’è ovvio che sia, i discepoli si rivolgono a Giovanni chiamandolo «rabbi», termine ebraico con cui lo stesso Gesù verrà indicato e che significa
maestro.
Dopodichè gli riferiscono che uno di loro, uno di quelli che insieme con loro erano con lui, si comporta in modo singolare: battezza, così come fa lo stesso Giovanni. La preoccupazione maggiore, però, è un’altra e sembra essere legata alla constatazione che «tutti vanno da lui» e, di conseguenza, sembrano dire al battista i suoi discepoli, non vengono più da te.
In queste affermazioni possiamo intravedere ciò che, con ogni probabilità, stava accadendo nel nascente movimento cristiano e nella stessa comunità in cui il quarto vangelo viene scritto: alla figura del battista, fino ad allora centrale, viene sostituendosi quella del suo discepolo Gesù che, dopo diverse titubanze da parte di alcuni, si preparava ad essere riconosciuto dalla maggioranza come l’autentico messia. A quanto pare, però, c’era ancora chi non intendeva sposare questa tesi e rimaneva convinto del fatto che il messia, in verità, fosse il maestro che Gesù stesso aveva riconosciuto e seguito: Giovanni il battista. Ecco che allora l’autore del quarto vangelo mette all’opera tutta la sua creatività: fa dire proprio ai discepoli del battista che egli stesso aveva reso testimonianza a Gesù; quasi che questo fosse, in definitiva, il suo unico ruolo. Il nostro narratore, in questo modo, riesce a mettere in atto un vero e proprio ribaltamento: sebbene Giovanni fosse stato il maestro di Gesù, in verità il suo compito era quello di spianargli la strada, di preparargli il cammino. Il ruolo del battista è stato quello del testimone: in ciò risiede il senso del suo annuncio. Perché il chiarimento risulti esplicito e definitivo a quanti ascoltano, l’autore raggiunge il culmine della sua intenzione narrativa facendo dire espressamente a Giovanni: «Non sono io il cristo»; sottinteso: perché è lui, Gesù. Voilà, eccoci alla conclusione che preme tanto all’autore del quarto vangelo: lo stesso battista ammette di non essere lui il messia.
Se il narratore è costretto a questo espediente, è perché, con ogni probabilità, qualcuno all’interno della comunità in cui egli vive ed alla quale si rivolge è convinto del contrario: ovverosia, del fatto che il cristo, in verità, fosse proprio il battista, il maestro di Gesù. Ma sarà il battista stesso a spiegare che, nonostante egli sia stato mandato davanti a Gesù, in realtà è Gesù a precederlo, a venire «prima di lui» (Giovanni 1:30).
I ruoli sono così ristabiliti per bocca dello stesso Giovanni: per cui i suoi stessi discepoli devono convincersi del fatto che il messia promesso ad Israele non fosse lui, ma uno di quelli che andavano con lui, anzi, dietro di lui; un suo discepolo, proveniente dalle campagne della Galilea: Gesù.
Ci sono ancora poche parole a conclusione del nostro brano; sono di rara bellezza e saranno, anche, le ultime che, significativamente, il battista pronuncerà nel quarto vangelo: ragion per cui sono, chiaramente, di estrema rilevanza. Giovanni si congeda dal quarto vangelo con quest’espressione: «Egli – ovvero Gesù – deve crescere. Io, invece, diminuire». Ancora una volta, l’intenzione che anima queste parole è quella non del battista, ma dell’autore del quarto vangelo, che mette in bocca a Giovanni un appello rivolto a quanti, ancora, erano convinti che il messia fosse lui. La dichiarazione programmatica che il maestro rivolge ai suoi discepoli non lascia adito a dubbi: cessate di attribuirmi eccessiva importanza, perché colui al quale dovete riconoscerne, in realtà, non sono io, ma Gesù. Questo, rimanendo sul piano storico, è sì determinante per comprendere l’evangelo, ma comunque insufficiente per viverne il messaggio. Oggi, queste parole che attraversano i secoli e ci raggiungono, possono dirci qualcosa in più sulla nostra vocazione al discepolato.
Rispondere con la vita all’appello che l’evangelo rivolge a ciascuna e ciascuno di noi, significa proprio questo: diminuire affinché egli cresca. Sottrarre spazio all’eccessiva concentrazione su noi stesse, su noi stessi, perché nel segreto dei nostri recessi più intimi si faccia strada, con la sua delicatezza, colui che fu maestro del suo maestro, superandolo non in autorità, ma in misericordia. Quella dei nostri cuori è la mangiatoia vuota chiamata a divenire luogo dell’accoglienza di una nascita desiderata eppure inattesa. Le parole del battista che abbiamo ascoltato, infatti, seguono nel quarto vangelo all’episodio dell’incontro tra Gesù e Nicodemo, dove i due dialogheranno di notte proprio sul significato dell’espressione «nascere di nuovo». Per chi si predispone al cammino del discepolato, il natale rappresenta questo appello a rinascere, a rinnovarsi, a divenire una donna ed un uomo nuovi: e ciò può avvenire, soltanto, se nel silenzio dei cuori si fa spazio, dolcemente, la voce di Gesù che ci chiama a seguirlo per le strade di un mondo insieme splendido e contraddittorio, segnato dalla sofferenza ma anche dalla tenerezza con cui Dio ci invita a guardarla, ad incontrarla, ad accoglierla e a sanarla.
[Trapani, Domenica 25 Dicembre 2011 - Pastore
Alessandro Esposito] -
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