Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
03/01/2012 21:02:02

Arriva Garibaldi!

«Mamma, zìttiti e sta’ ‘n paci: stai babbiannu, hai le solite allucinazioni».
La zia Emma, vedova del generale Attilio Jevolella eroe della guerra d’Africa, aveva da tempo quella strana ossessione, e non c’era verso di fargliela passare. Vedeva i garibaldini sbarcare allo scalo di scirocco, lanciarsi di corsa lungo la muraglia del vecchio mercato e infilare come furie la Porta di Mare, per andare a dispiegare la bannéra fitusa dei Savoia sulla facciata del Palazzo della Loggia.
A ottant’anni, la zia Emma aveva i capelli bianchi come i confetti di nozze della pasticceria De Gaetano, e gli occhi cerulei e liquidi come l’acqua di mare vàscia vàscia di Punta Scibbiliana. Viveva da vent’anni a casa di sua figlia Liliana, in viale Fazio, ma con la fantasia si trovava in eterno affacciata al balconcino di via dello Sbarco, non lontano dalla Loggia, dal Cassero e dal miracoloso vicolo Neve dove una mattina d’un inverno lontano erano andati a sfarfallare e posarsi, trascinati da una giravolta capricciosa del vento, una dozzina o forse più di candidi fiocchi destinati certamente al cocuzzolo del Monte San Giuliano. (Non era mai scesa neve a Marsala a memoria d’uomo e di archivio comunale, né ai tempi dei cristiani né in quelli dei maomettani, e quell’evento inaudito fu celebrato appunto con la dedica d’un appropriato nome a quel vicolo baciato dalla più bizzarra delle sorti).
La zia Emma era nata nel 1900, cioè quarant’anni tondi dopo lo sbarco dei Mille a Marsala; e quando mai, perciò, avrebbe potuto veder passare quella ciurma di “filibbustieri” sotto il balcone di casa sua? Mettiamoci pure le traveggole della vecchiaia scancaràta, ma chi gliel’aveva ficcato poi nel cervello che quei bravi ragazzi settentrionali con la camicia rossa erano diavoli con tanto di corna, sputati come fiamme dell’inferno dai navigli piemontesi comandati dall’anticristo Caribbaldo per conto di un re eretico e malfamato, nemico dei santi e mangiatore di parrini arrustuti col burro e contorno di riso e polenta? Davvero, a questa domanda non avrebbe saputo rispondere nemmeno un professore emerito di pissicologgia.
La famiglia dei miei nonni era legata infatti a doppio filo con le sacre imperiture memorie dell’Impresa dei Mille. Rosalia Di Benedetto, la nonna, aveva portato con sé insieme alla dote, da Castelvetrano a Marsala, il pesante baule di legno scuro che custodiva la divisa e la sciabola da garibaldino del suo zio paterno Onofrio: quell’Onofrio Di Benedetto che l’Eroe dei Due Mondi in persona aveva nominato questore di Palermo, insieme a Salvatore Cappello, il 28 maggio del 1860 (una copia originale del decreto di nomina fu ereditata da mio padre, e fa bella mostra di sé su una parete del mio studio ramingo).
E nel baule, ammucchiato sotto i panni, le cinte e le nappe, giaceva un quadernetto foderato di raso rosso, interamente scritto a inchiostro carminio ormai impallidito, a lettere fitte fitte e più fini dei capelli d’una bedda fimmina di carne dolce e delicata. Nessuno aveva mai osato levarlo di lì. E a nessuno – che fesseria! – era mai venuto in mente di copiare a macchina quelle memorie, che rivelavano più d’un curioso particolare dell’epoca in cui avvenne la marcia dei Mille da Marsala a Palermo, per darle alle stampe coi dovuti onori.
Poi, uno sventurato giorno, bùm! Casa, nonna, baule, quaderno, e perfino il banano e le palme del giardino e la fontana di marmo coi pesciolini rossi: tutto finito, tutto in fumo, tutto annientato dallo scoppio d’un gigantesco ordigno “alleato” durante l’inutile e feroce bombardamento di Marsala dell’undici maggio 1943, che costò alla città quasi mille morti innocenti, in gran parte fimmine e picciriddi. Per fortuna mio padre, ch’era studioso e appassionato di vicende della famiglia, aveva letto e riletto avidamente in gioventù il quaderno di Onofrio, ch’egli trovava non solo istruttivo ma anche assai divertente. E quand’ero ragazzo me ne riferiva spesso dei brani, che asseriva di avere appreso a memoria o quasi. Cercherò dunque di fare onesta luce nei miei ricordi, per raccontare fedelmente – prima ch’io possa scancarare di cervello come la zia Emma buonanima – almeno l’episodio iniziale di quella modesta storia che nei libri di Storia non trovereste mai.
Come intuirete facilmente dalla vicenda che vi sto per narrare, Onofrio non doveva essere né un purissimo modello di patriota idealista né uno spregiudicato uomo di carriera. Sapeva il fatto suo, fiutava il vento, sfruttava le correnti della politica senza immischiarsi mai nei brutti affari. E immagino che anche per questo dovette guadagnarsi la fiducia del gran Nizzardo, amico della coerenza ma nemico della retorica e avverso fino al disgusto alla corte dei leccapiedi che gli ronzavano intorno dalla mattina alla sera. In famiglia, dapprincipio, lo guardarono storto e lo dipinsero quasi come un indemoniato traditore del Divin Potere Borbonico; poi, quand’ebbe fortuna, tutti – tranne la “principessa” sua cognata di cui subito parlerò, che su quell’affare mantenne fino alla morte il più sdegnoso silenzio – ne fecero una specie di santo risorgimentale, sopravvalutandone forse la tempra morale.
Suo fratello, il ben azzimato e aitante Domenico Di Benedetto cavaliere di Montevago, nato a Castelvetrano nel 1839 (Onofrio aveva, credo, otto anni più di lui), aveva fatto girare la testa alla romantica e religiosissima Elena de Quidera di Sambuca, da tutti chiamata “la principessa”, ultima erede di un’antica casata aragonese; e dalle nozze con la nobildonna era venuta al mondo nel 1874 la mia povera nonna Rosalia, destinata a far carne da macello per le bombe alleate. Uno striminzito feudo coltivato a mandorli e ulivi nei pressi di Sambuca, e un fatiscente palazzotto seicentesco a Castelvetrano, con tanto di stemmi e di torre merlata, era tutto quel che rimaneva alla fine dell’Ottocento dei possedimenti aviti che Elena trasmise a sua figlia per successione matrilineare. Poveri avanzi di un passato splendore, di cui mia nonna fu costretta a disfarsi per un pugno di lire quando il pur decoroso stipendio di suo marito – Antonio Jevolella di Benevento, detto don Totò, direttore della Florio Brandy all’inizio del Novecento – non bastò più per mantenere agli studi nelle regie università di Napoli e di Palermo quattro degli otto figlioli nati dalla loro unione: Maria, Corrado, Aurelio e Oreste.
Confessava dunque il buon questore Onofrio nelle sue perdute memorie che, fino alla sera dell’undici maggio 1860, lui di quel Garibaldi non aveva sentito narrare altro che un putiferio di chiacchiere insulse e fumose. «Un capobranco di lupi affamati», aveva tagliato corto un giorno il vescovo di Mazara del Vallo durante un memorabile sermone; e tuonando dal pulpito aveva così completato il ritratto del famigerato generale: «Un figlio di Giuda assetato di sangue che, se potesse, anche in Cina correrebbe a cavallo, a tagliare il codino ai mandarini e la gola al Gran Khan, che non gli hanno mai fatto ‘na ‘nticchia di male».
E Onofrio, fedelissimo di Santa Madre Chiesa, gli aveva quasi creduto. Anche se, come in fondo tutti i siciliani d’una certa cultura – lui s’era laureato in legge a Palermo, per poi aprire a Castelvetrano uno studio d’avvocato – non gli sarebbe dispiaciuto affatto se il “capobranco” di Nizza un bel giorno avesse tagliato la gola anche al novello Gran Khan di Napoli, quel Francischiello ignorante e tirannico ancor più di suo padre Ferdinando il Re Bomba, arrogante e ghiottone, nemico della Sicilia e di ogni più timido barlume di idee liberali.
Ma venne poi quella sera di maggio. Era un martedì. Arrivarono i dispacci da Trapani sul filo del telegrafo, e sulla piazza di Castelvetrano la gente cominciò a guardarsi in faccia con un’aria diversa dal solito. «Sbarcato il generale Garibaldi con circa mille uomini malamente armati nel porto di Marsala», dicevano i laconici messaggi. Sembrava impossibile. La giornata era stata di quelle così terse, quiete e brillanti, che perfino i tufi opachi e giallognoli delle case parevano riverberare in gloria gli ultimi raggi del sole. Dalla rupe millenaria di Selinunte, oltre lo specchio levigato e immenso dell’immobile mare, anche i colli africani di Capo Bon a momenti si sarebbero potuti intravvedere. Sembrava il trionfo della pace. E invece era l’inizio di una guerra dalle incertissime sorti.
Diceva Onofrio che verso le otto di sera, di colpo, la città era piombata in un silenzio sgomento. Il brulichío nervoso della folla era cessato all’improvviso; tutti se l’erano squagliata, rifugiandosi nelle case come i piccioni nei pertugi delle vecchie mura dopo un potente sparo, o come i codardi al serpeggiare d’un sospetto di peste bubbonica, lasciando vicoli e piazze in balia dei cani e delle guardie borboniche che s’aggiravano zitte, con certe facce torve da sbirri e le baionette innestate sulle canne dei lunghi fucili. E tuttavia nessuno aveva ordinato il coprifuoco quella sera.
Lui, il giovane Onofrio, trovandosi a quell’ora per certi affari dalle parti della Trinità di Delia, e dovendo passare per una trazzèra accanto alle mura di un vecchio convento, s’imbatté all’improvviso nella figura ansimante d’un giovane frate cappuccino che, quasi correndo, gli porse un saluto stranamente caloroso: «Vosciènza ‘bbinirica!».
«S’abbinirica a vossìa… ma dove correte così allegramente, fra’…».
«Fra’ Pantaleo, vosciènza».
«Avvocato Onofrio Di Benedetto».
I due si fermarono e si scrutarono un po’. Il frate non parlava, sembrava colto da un improvviso timore. Onofrio non volle insistere: «Andate pure in pace, fra’ Pantaleo, ché per i frati, anche picciotti come voi, è già ora a momenti di irivìnni a curcàrivi».
Quello si mise a ridere tanto forte da doversi dubitare del suo equilibrio di mente. Cessate le convulsioni, si fece serio e chiarì: «Andate in pace, mi avete detto… e invece io vado in guerra, mio caro avvocato, altro che dormire! Ecco perché sono scoppiato a ridere».
«In guerra? Ma che dite? Voi, un fraticello… a cu vuliti pigghiari pi’ ffissa, a mmia?».
Pantaleo si fece serissimo, ispirato come un martire cristiano davanti ai centurioni imperiali: «Con tutto il rispetto, signore, io non vi prendo per fesso, voi avete anche ragione, ma il fatto è questo: in guerra io vado. Non avete sentito di Garibaldi? È arrivato, e domattina prende lo stradone di Salemi, con tutti i suoi soldati, per quanto è vero Dio!».
«Salemi? E voi come lo sapete?».
«Noi frati, signore, abbiamo più spie degli sbirri, mi creda. Io so che non andrà per Trapani né per Mazara. A Salemi andrà, dritto dritto verso Palermo, per Dio!».
«E quand’anche ciò fosse vero, voi che c’entrate con quel generale miscredente e mangiaparrini… ah, forse ho capito, voi andate a combattere contro di lui, farete il cappellano nelle truppe di Sua Maestà?».
«Nossignore, io vado da lui, e il cappellano lo farò per i piemontesi».
Onofrio ci restò come un babbà: «I piemontesi?».
«Sissignore vosciènza, e volete sapere perché? Perché Garibaldi dice che vuol portare ai popoli giustizia e libertà. E voi pensate che a Domineddio queste due paroline non garbino affatto? Al contrario, il Padre, il Figlio e tutti i santi non han parlato mai d’altro che di giustizia e libertà. Diligite iustitiam, qui iudicatis terram, dice il libro della Sapienza, e voi che siete avvocato lo dovete comprendere il latino. E la libertà cos’è, se non quel bene prezioso e altissimo che nostro signore Gesù Cristo eguagliava alla verità? Ma adesso perdonate, avvocato, io devo andare di corsa. Per domani devo essere a Salemi. A costo di scorticarmi i piedi. A Salemi! E vinceremo! Viva l’Italia! Addio».
Fu un colpo per Onofrio. E mentre il fraticello si dileguava come una lepre in mezzo agli ulivi e ai fichi d’india, lui restò immobile a guardarsi le scarpe impolverate e il bell’abito allicchittato che pareva pronto per una cerimonia di nozze. Gli echeggiava nella mente quel grido assai convinto: «E vinceremo!». Tornò a casa a passo lento, come dovesse faticare a sorreggere la testa carica di turbinosi pensieri. Poi stette mezz’ora a rimirarsi nello specchio. Si tolse le scarpe, si slacciò il colletto e si gettò a letto vestito.
L’indomani all’alba si mise l’abito da caccia, prese lo schioppo e le munizioni. Un contadino lo vide uscire nei campi alle sei di mattina.
«Unni iti a ‘st’ura, vosciènza ‘bbinirica?».
«A caccia vado, verso i monti di Salemi».
«Bedda jurnata, jurnata bbona».
«Bedda, sì. Ma vedo nuvole a tramontana. Stasera o domani, forse, qualcosa cambierà».