Mezza parola. Denunciò il fatto alla Polizia e la sua linea telefonica fu messa sotto controllo. Dopo pochi giorni arrivò puntuale la prima richiesta di estorsione. “Dammi 30 mila euro” chiedeva una voce maschile dall'altro lato della cornetta. E poi ancora squilli, telefonate mute e un'altra richiesta esplicita: le solite 30 mila euro. La seconda richiesta in tre mesi. Dai tabulati telefonici venne fuori che tutte le chiamate provenivano da alcune cabine telefoniche del centro storico di Marsala e, poco prima o immediatamente le richieste intimidatorie, l'estorsore telefonava ad altre persone. Questa volta, però non si trattava di minacce, telefonava a qualche amico o parente. I numeri erano sempre gli stessi. Da una perizia fonica gli inquirenti sono risaliti a Stefano Pipitone, incensurato marsalese di 65 anni. I tecnici hanno comparato la voce delle telefonate intimidatorie con quella di un telefono cellulare chiamato da una delle utenze intercettate e, verosimilmente, corrisponderebbe con un'approssimazione del 64%. L'udienza preliminare è stata fissata il 17 gennaio, Pipitone sarà difeso dagli avvocati Stefano Pellegrino e Vito Cimiotta. Il procedimento è stato aperto anche contro ignoti. Durante alcune chiamate, quando il titolare del tabacchino non rispondeva, Pipitone commentava “stavota unn'arrispunne (stavolta non risponde)” e in sottofondo si percepivano commenti di terze persone, ma ad un volume così basso da non poter essere preso in considerazione per una perizia fonica. Da quando Stefano Pipitone è stato informato del procedimento a suo carico, il titolare della rivendita di tabacchi di piazza Marconi non ha più ricevuto minacce di alcun tipo e, dopo qualche anno, se ne è andato in pensione.
Quella dei fratelli Giuseppe e Paolo Internicola, è un'altra vicenda legata al mondo del racket. I due sono accusati di estorsione in danno di alcuni commercianti e imprenditori marsalesi. L'inchiesta è nata dalla denuncia di un commerciante, titolare di un negozio di materiale elettrico in corso Gramsci (Clemente), vittima di un tentativo di estorsione, per il quale sono già stati condannati i pregiudicati Antonino Titone e Vito De Vita. Nel corso dell'ultima udienza il luogotenente dei Carabinieri Alberto Furia, interrogato dal pm Nicola Scalabrini, ha riferito che «fu lo stesso Paolo Internicola a dire al fratello, nel corso di un colloquio in carcere registrato dalla polizia, di avere dipinto le croci sulla saracinesca del negozio di Clemente».
All'epoca Giuseppe Internicola era detenuto per il tentativo di estorsione al titolare di un'autoscuola (Gaetano Basile). «Dalle immagini di una telecamera, però - dice l'avvocato Alessandro Casano, che difende i fratelli Internicola assieme a Paolo Paladino - emerge che il soggetto che dipinse le croci era Titone Antonino. E su questo c'è già una sentenza passata in giudicato». Un mistero, quindi, il motivo per cui Paolo Internicola si è vantato di quell'azione.
Dalle intercettazioni effettuate dai carabinieri è, inoltre, emerso che a fare le telefonate minatorie al commerciante sarebbero stati Titone e De Vita. Il secondo è figlio del boss e killer di Cosa Nostra marsalese Francesco De Vita, un ergastolo definitivo sulle spalle, arrestato dai carabinieri il 2 dicembre 2009, dopo circa dieci anni di latitanza, in una villetta di contrada Ventrischi.
I fratelli Internicola - alla cui individuazione, spiega l'avvocato Casano, gli investigatori sono arrivati «per vie traverse» - avrebbero, dunque, legami «eccellenti» nell'ambito della criminalità organizzata locale. Ciò avrebbe loro consentito di agire con maggiore potere intimidatorio. Questo spiegherebbe perché, in una precedente udienza, la maggior parte delle vittime individuate ha negato di avere subito minacce estorsive. Eppure c'è chi ha subìto l'incendio dell'azienda, chi della casa al mare e chi ha avuto chiari avvertimenti (bidone con benzina davanti l'officina). Solo uno degli imprenditori individuati come parti lese, Antonio Aiuto, titolare della Polipack, ha detto di avere ricevuto una telefonata «anonima» di minacce, ma «diversi mesi prima» dell'attentato incendiario subito nell'ottobre 2005.
Di rilievo i precedenti dei fratelli Internicola. Paolo, nel 2009, fu arrestato, con Vincenzo De Vita, con l'accusa di aver preteso 10 mila euro da un imprenditore, mentre Giuseppe, nel 2005, finì in manette mentre incassava i 5 mila euro chiesti a Gaetano Basile, che d'accordo con la polizia gli tese la trappola.