Non mi stupisce che la mia spiegazione dell’articolo del Credo: «[Gesù] fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria vergine », contenuto nel mio commento al Catechismo di Heidelberg (Claudiana 2011), possa suscitare, come dice il nostro lettore, «un nugolo di interrogativi». Quella infatti è una delle affermazioni della fede cristiana che fin dall’inizio (anche prima di essere inserita nelle due principali confessioni di fede della Chiesa antica, e poi in ogni secolo fino a oggi) e più di ogni altra ha dato luogo a una discussione infinita che continuerà, presumibilmente, finché esisterà la fede cristiana e finché questa fede cercherà di rendere conto di ciò che gli evangeli e, più in generale, il Nuovo Testamento affermano sulla persona di Gesù di Nazareth. Non è certamente un caso che la domanda che Gesù pose ai discepoli in un momento cruciale, di svolta, del suo ministero terreno: «E voi [voi, miei discepoli] che dite che io sia?» (Marco 8, 29) sia in fondo rimasta senza risposta, perché l’unica risposta data, quella di Pietro («Tu sei il Cristo», cioè il Messia), è giusta e sbagliata al tempo stesso: giusta perché Gesù è effettivamente il Messia, sbagliata perché Pietro dava alla parola «Messia» un significato totalmente diverso da quello che le dava Gesù. Ma perché la domanda di Gesù resta in fondo senza risposta? Perché Gesù deve restare per ogni generazione e ogni creatura umana una domanda aperta, anzi «un segno di contraddizione », come disse il vecchio Simeone a Maria, dopo averla benedetta insieme a Giuseppe (Luca 2, 34). Gesù stesso, dunque, e non solo quello che noi diciamo di lui, è discutibile, e lo sarà fino alla fine della storia. Ora il nostro lettore, se ho letto bene la sua lunga lettera (l’ho dovuta purtroppo accorciare per i soliti motivi di spazio), solleva due obiezioni: la prima riguarda la differenza tra affermare e narrare; la seconda riguarda il ruolo del «seme umano» femminile – quello di Maria – nella nascita di Gesù. Cercherò di rispondere alle due obiezioni.
1. Nel mio commento ho scritto, a proposito della «nascita verginale», quanto segue: «È difficile, per non dire impossibile, immaginare come un fatto del genere sia potuto accadere. Ma non c’è bisogno di immaginarlo. Neppure gli evangelisti Matteo e Luca l’hanno immaginato; l’hanno semplicemente affermato» (p. 100). Il nostro lettore sostiene che Matteo e Luca «più che affermare, abbiano narrato un racconto, un episodio, una storia, un fatto, la nascita di Gesù », e ipotizza che «tra l’affermare e il narrare ci sia pure una differenza!». Ma va da sé che c’è una differenza tra una affermazione e una narrazione! Ed è senz’altro vero che Matteo e Luca hanno narrato, cioè trasformato in racconto, sia quello che l’apostolo Paolo si limita ad affermare, quando ad esempio dice di Gesù che, come Figlio di Dio, è «nato da donna» (Galati 4, 4), sia quello che l’apostolo Giovanni si limita anche lui ad affermare, quando riassume tutta la storia di Natale in questi termini estremamente concisi: «La Parola è stata fatta carne» (Giovanni 1, 14). Qui c’è affermazione senza narrazione. In Matteo e Luca c’è invece narrazione e affermazione. Mi sembra infatti del tutto evidente che Matteo e Luca hanno raccontato per affermare o, se si preferisce, hanno affermato raccontando: la loro narrazione infatti non è il racconto di una fiaba, o di una leggenda, o di un sogno, è invece il racconto di «un fatto», come riconosce il nostro lettore. Matteo e Luca lo hanno raccontato. Ora tra raccontare un fatto e semplicemente affermarlo c’è un’ovvia differenza di forma, ma la sostanza è la stessa: si tratta sempre di un fatto accaduto, e non di un prodotto dell’immaginazione. E quando ho scritto che Matteo e Luca «hanno semplicemente affermato» la nascita verginale di Gesù, volevo solo dire che l’hanno affermata senza chiedersi come essa abbia potuto accadere: la loro narrazione si è limitata al fatto, senza fantasticare sulle modalità.
2. La seconda obiezione riguarda quest’altra mia affermazione: «Se Gesù è, oltre che uomo, anche Dio, non può, in quanto Dio, essere generato da un seme umano». Il nostro lettore osserva, non a torto, che anche ammettendo che Gesù non sia stato generato dal seme di Giuseppe, è però sicuramente stato generato dal «seme» (se così lo vogliamo chiamare) di Maria, che è anch’esso, ovviamente, seme umano, perché Maria era una donna, e non una dea. Questo ragionamento non fa una grinza. Ma conferma – mi sembra – quello che ho detto, e cioè che Gesù, in quanto Dio, non è stato generato da seme umano, né di Giuseppe, né di Maria. È in quanto uomo (e non in quanto Dio) che è stato generato da seme umano, appunto da quello di Maria. È vero che il concilio di Efeso (431) ha dichiarato Maria «madre di Dio» (theotòkos è la parola greca), madre cioè di Gesù che, oltre che uomo, è anche Dio. Ma a parte il carattere altamente discutibile di questa formula, essa comunque non significa affatto – come precisa lo stesso concilio – che «la sua [di Gesù] divinità abbia avuto origine dalla Santa Vergine». Maria, dunque – e Maria soltanto – ha dato a Gesù la natura umana e solo la natura umana. Ma quale natura? La nostra, quella di noi umani. «Veramente uomo» è stato Gesù, uomo al 100% potremmo dire, «consustanziale al Padre per la divinità, e consustanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato» – così ha dichiarato il concilio di Calcedonia del 451. Il linguaggio risente delle categorie di pensiero greche, ma il discorso è quello biblico di Gesù veramente uomo e al tempo stesso veramente Dio, in un’unica persona. «Veramente uomo» nel senso che Gesù non era un angelo camuffato da uomo; l’incarnazione non è un travestimento; la sua umanità non è il semplice vestito umano di un corpo divino, quindi in fin dei conti una umanità apparente; no, l’incarnazione è stata una vera e propria assunzione di umanità, una appropriazione della condizione umana in tutte le sue espressioni e situazioni: «la Parola è diventata carne, non è solo apparsa come carne. Ma Gesù è stato anche «veramente Dio», come confessò Tommaso davanti al Risorto: «Signore mio e Dio mio!» (Giovanni 20, 28) e come dichiara un antichissimo inno cristiano riportato dall’apostolo Paolo, secondo il quale lo ha «sovranamente innalzato» Gesù, dandogli «il nome che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto la terra, e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre» (Filippesi 2, 9-11). Il nome di «Signore» è il nome di Dio.
Ma torniamo un istante all’umanità di Gesù, che egli ha ricevuto da Maria e da lei soltanto, e non da Giuseppe. Si tratta, come ho già detto (e dice da sempre la fede cristiana) di vera umanità. Che sia vera umanità lo si vede dal fatto che la sua, come la nostra, è soggetta alla tentazione. Gesù «è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato» (Ebrei 4,15). La differenza tra l’umanità di Gesù e la nostra non è che la sua era una umanità superiore, qualitativamente diversa dalla nostra, e quindi immune dalle tentazioni che invece accompagnano tutta la nostra esistenza; no, egli è stato tentato come noi e forse persino più di noi. La diversità con noi non sta nella sua natura, che era come la nostra, ma nella sua ubbidienza a Dio, che era piena e totale, mentre la nostra sappiamo quanto è frammentaria, manchevole e incompiuta. Ma proprio perché crediamo e affermiamo la vera umanità di Gesù, le nostre Chiese, come pure le Chiese ortodosse, anzi contestano, il dogma della «Immacolata concezione» di Maria, proclamato da Pio IX nel 1854, secondo il quale Maria sarebbe stata concepita senza peccato originale. Ma se Maria fosse stata davvero immune dal peccato originale, avrebbe trasmesso a Gesù una umanità qualitativamente diversa e superiore alla nostra (che non è immune da nessun peccato, né originale né attuale), cioè Gesù non sarebbe umano come noi. Quel dogma, oltre a essere del tutto contrario alla Scrittura, allontana l’umanità di Gesù dalla nostra e contraddice l’evangelo dell’incarnazione. Ma la vera umanità di Gesù ha anche un altro versante: in Gesù appare l’umanità come Dio l’aveva progettata; egli è il secondo Adamo (I Corinzi 15, 47), il principio della nuova umanità nella quale finalmente Dio si può ompiacere. In una delle sue ultime lettere dal carcere, quella del 21 agosto 1944, Bonhoeffer scriveva: «Dobbiamo sempre di nuovo immergerci molto a lungo e con molta serenità nella vita, nella parola, nell’azione, nella sofferenza e nella morte di Gesù, per discernere che cosa Dio promette e che cosa realizza». Non solo la morte e la risurrezione di Gesù sono luoghi e strumenti di salvezza, lo è anche la sua vita. Occorre «immergersi nella sua vita» per scoprire con lui la vera umanità. All’antica domanda Cur Deus homo? = «Perché Dio s’è fatto uomo?», si deve dunque dare una doppia risposta: per salvare l’umanità con la sua morte, ma anche per rivelare l’umanità con la sua vita.
Paolo Ricca - da 'Riforma' del 10 marzo 2012 -
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Paolo Ricca, La fede cristiana evangelica. Un commento al Catechismo di Heidelberg, Claudiana, Torino 2011, pp. 99-102