Roma - "Chi ha paura sogna, chi ha paura ama, chi ha paura piange. Io come tutti ho paura. Ma non sono vigliacco, altrimenti me ne sarei già andato". Antonio Montinaro sapeva di rischiare scortando Giovanni Falcone. Il 23 maggio 1992 anche lui è morto a bordo della Fiat Croma che esplose a Capaci. Non ha mai mollato, così come non lo hanno mai fatto tutti quei magistrati, giornalisti e agenti di Polizia che hanno sacrificato la propria vita in nome della lotta alla mafia. Facili bersagli perché lasciati da soli a combattere. Uomini isolati e per bene, come lo erano il segretario del partito comunista italiano della Sicilia Pio La Torre, assassinato il 30 aprile 1982; Carlo Alberto dalla Chiesa, generale dei carabinieri e prefetto ammazzato il 3 settembre 1982; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, giudici saltati in aria il 23 maggio e il 19 luglio del 1992.
La storia di queste morti ha cambiato la società degli ultimi 30 anni. E Attilio Bolzoni, inviato di Repubblica, ha deciso di tornare a Palermo per raccontarle. Le ha racchiuse in un libro (ed. Melampo) e in un film documentario di Paolo Santolini: "Uomini soli". Libro e film verranno distribuiti con Repubblica da lunedì 14 maggio.
Il viaggio del cronista, che per trent'anni ha raccontato la Sicilia e la sua mafia, parte dal quadrilatero dei cadaveri eccellenti. Da quelle strade della città mattatoio dove, nei primi anni Ottanta, persero la vita Calogero Zucchetto, l'agente della mobile di Palermo che 'cacciava' latitanti, il magistrato antimafia Rocco Chinnici, Piersanti Mattarella, allora presidente della Regione Sicilia. I quotidiani di quei giorni titolavano "Palermo come Beirut". Ma, secondo Bolzoni, era peggio di Beirut. "Ricordo i luoghi, gli odori, le facce. Sono cose che non ho mai dimenticato. Palermo mi ha lasciato delle cicatrici. E non c'è anestesia che lenisca il dolore".
Dove c'erano i morti, ora ci sono le lapidi e le croci. Un cimitero a cielo aperto dove i drammi privati sono diventati pubblici. Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano quattro italiani fuori posto. Personaggi veri per un'Italia fatta di trame, di egoismi e di convenienze. Quattro persone che facevano paura al potere. Troppo diversi e soli per avere un'altra sorte. Bolzoni lascia da parte le date, le carte dei tribunali e le sentenze. Racconta questi uomini per bene attraverso le voci degli amici, dei colleghi, dei familiari, e di tutti quelli che hanno lavorato al loro fianco. Restituisce così un'istantanea di quegli anni in un film empatico e mai retorico. E fa rivivere i protagonisti raccontando il dolore di chi era al loro fianco.
Il primo uomo solo è Pio La Torre. Il 1 maggio 1982 il segretario del partito comunista italiano della Sicilia non era in Piazza Politeama tra le bandiere rosse, ma dentro una bara. "Era un grande rompicoglioni - ricorda il figlio Franco - la sua ossessione non era la mafia, era il riscatto del popolo siciliano. E Cosa Nostra era l'ostacolo maggiore". Nelle immagini del suo funerale ci sono le lacrime del Presidente della Repubblica Sandro Pertini e del segretario del Pci Enrico Berlinguer, il dolore della famiglia e del popolo palermitano. Bolzoni era lì tra quei volti stravolti, i brividi e la paura. Era diventato un uomo pericoloso Pio La Torre, racconta il cronista. Si era messo in testa che essere mafioso doveva diventare un reato. "Palermo - diceva - è una città dove si fa politica con la pistola". Non si conosce il motivo preciso per cui fu ucciso. Ma a lui dobbiamo la legge sul reato di associazione mafiosa.
Carlo Alberto dalla Chiesa era un generale che non piaceva al potere. "La mafia è cauta - disse in un'intervista a Giorgio Bocca, pubblicata su Repubblica - è lenta, ti misura, ti verifica alla lontana. Si ammazza l'uomo di potere quando si crea questa combinazione fatale: "È diventato potente ma si può uccidere perchè è isolato". Quando ancora i cadaveri del generale e della sua giovane moglie erano in macchina, un cittadino attaccò una cartello che recitava: "Qui è morta la speranza dei palermitani onesti". Il figlio Nando ricorda l'ultima vacanza trascorsa col padre, era l'estate del 1982 e lui si sentiva un uomo in gabbia. Cercava aiuto ma nessuno più gli rispondeva al telefono.
Nella Palermo degli anni Ottanta si combatteva una lotta mafia personalizzata. Francesco la Licata, giornalista del quotidiano L'Ora, piangeva ai funerali delle vittime. "Ci sentivamo parte lesa. Eravamo sulla stessa barricata". Basti pensare che il commissario Cassarà usava la macchina del padre per i pedinamenti. Poi, però, anche Ninni morì il 6 agosto del 1985.
"La storia peggiore è quella di Giovanni Falcone. Mi disse che si sentiva seviziato", racconta Nando dalla Chiesa. Un altro uomo lasciato solo. Faceva tremare la mafia e per questo fu ammazzato. Cercava di schivare i tormenti, ma erano i suoi stessi colleghi a guardarlo con sospetto. È stato celebrato come eroe nazionale solo quando è finito nella tomba. Leonardo Guarnotta, presidente del tribunale di Palermo, ex giudice del pool antimafia, torna nel bunker dove lavorava con Falcone e Borsellino. Lo fa dopo 17 anni e si commuove: "Qui è tutto come prima. Che rabbia pensare che Giovanni e Paolo non possono sapere come è cambiata la società dopo la loro morte".
Morì 55 giorni dopo l'amico Giovanni Falcone. Paolo Borsellino fu tradito e venduto. L'amica magistrato Alessandra Camassa ricorda di averlo visto piangere. Sapeva di essere diventato un bersaglio e che a Palermo era arrivato l'esplosivo anche per lui. Era il 19 luglio 1992 quando una autobomba esplose in via D'Amelio, sotto casa della madre. Letizia Battaglia, che ha fotografato i morti delle stragi per il quotidiano L'Ora, ricorda i pezzi di carne sparsi dappertutto. "C'era chi piangeva, chi gridava. Mamma mia che cosa abbiamo avuto. Basta Attilio. Basta".