Il racconto che abbiamo ascoltato quest’oggi giace di solito inascoltato, sepolto tra le numerose pagine dimenticate dei testi biblici: raramente è oggetto di studio, ancor meno spunto per una predicazione. Chi mi ha permesso di soffermarmici è l’amica
Violairis che, sulle pagine del sito della nostra comunità, ha dedicato a questo episodio insieme cruento e commovente righe assai toccanti e illuminanti. Trattandosi di una narrazione complessa ed articolata, troppo ricca di contenuti per essere ripercorsa esaustivamente nel breve spazio di una meditazione domenicale, vorrei limitarmi ad approfondirne con voi tre aspetti nevralgici.
Il primo di essi lo intitolerei: «la teologia da riformulare». Ovviamente provvedo subito a sviluppare il contenuto di quest’affermazione all’apparenza astratta e generica. Vorrei partire, a questo scopo, da una considerazione: il più delle volte siamo propensi a riconoscere i limiti della riflessione teologica altrui, in particolare di quella che riteniamo, per così dire, «sorpassata» sia per motivi cronologici che per aspetti legati ai suoi contenuti. Mi spiego: un Dio il cui sdegno viene collegato ad una situazione di siccità prolungata e la cui ira va placata ripianando un debito cosiddetto «di sangue» fa parte di quelle concezioni che derubrichiamo immediatamente come «arcaiche». In sostanza, si tratta di concezioni del divino che appartengono, per così dire, all’«infanzia religiosa» del genere umano e che oggi la nostra società, figlia dei progressi conseguiti nell’ambio della ragione, considera superate. Un Dio che accetti il sacrificio di innocenti o, comunque sia, di incolpevoli, come riparazione di un delitto sanguinoso, è un Dio che la maggior parte di noi cristiane e cristiani occidentalizzati tende a considerare estraneo, improponibile.
Riteniamo infatti che la nostra sensibilità religiosa sia più evoluta e consideriamo queste concezioni proprie di un universo mitico, in un certo qual modo pre-razionale. Perché il «primitivo», nei nostri stereotipi, è sempre l’altro. Non è con lo stesso spirito critico che guardiamo ad una delle dottrine-cardine della teologia cristiana tradizionale, secondo cui – cito l’apostolo Paolo – Gesù è colui che «Dio ha stabilito come sacrificio propiziatorio mediante la fede nel suo sangue» (Romani 3:25): ma in questo caso non parliamo più di retaggi mitici, ma di «raffinata elaborazione teologica». Eppure la logica sottesa alle parole di Paolo è la medesima che sta alla base del racconto che abbiamo ascoltato: il peccato (nel primo caso il tentativo di sterminare un popolo, nel secondo una costruzione religiosa non verificabile, quella del cosiddetto «peccato originale», che non si capisce perché siamo tenuti ad accogliere pur senza comprenderla o condividerla) è un debito che si può saldare soltanto con il sangue. Se non condividiamo questa affermazione quando la rinveniamo nel racconto di Davide e dei Gaboniti, onestà vorrebbe che, senza fare due pesi e due misure, la trovassimo insostenibile anche quando a pronunciarla è l’apostolo Paolo, che la riferisce alla morte in croce di Gesù. Un Dio che riscatta il peccato con il sangue, sia esso sangue umano o (inspiegabilmente) umano e divino insieme, come pretenderebbe la teologia trinitaria, è comunque un Dio che giustifica la logica sacrificale che noi, oggi, non siamo più in grado di concepire né di condividere.
Il nostro sforzo, pertanto, va nella direzione di una comprensione diversa del racconto che abbiamo ascoltato: ed è qui che si inseriscono le due riflessioni successive che vorrei provare a svolgere insieme con voi.
Anzitutto, nonostante i sospetti che la teologia occidentale continua ad avere nei riguardi di questa prospettiva, sarebbe utile dare del nostro racconto una lettura in chiave
politica: ecco perché intitolerei questo secondo punto: «smascherare il potere». Guardando ai fatti con occhi meno ingenui, potremmo ricostruire in questo modo la situazione presentata dal nostro testo: Davide è da poco diventato re d’Israele succedendo a Saul; quest’ultimo, insieme con l’erede legittimo al trono, il figlio Gionatan, è morto sul campo di battaglia, ucciso dai Filistei. Ciononostante, altri potenziali eredi al trono, i due figli che Saul ha avuto dalla sua concubina Rizpà e una fitta schiera di nipoti, possono ancora aspirare a regnare su Israele: motivo per cui Davide, uomo scaltro e avvezzo alle dinamiche di palazzo, ha tutto l’interesse a liberarsi di questa scomoda concorrenza. In parole povere: è assai probabile che ciò che il testo biblico riporta come una sorta di «gesto riparatore» compiuto da Davide nei confronti dei Gaboniti, sia in realtà un regolamento di conti teso ad impedire l’ascesa al trono dei legittimi eredi di Saul. Ancora una volta, dovremmo rivedere gli schemi con cui, normalmente, ci hanno insegnato a leggere la bibbia: non si tratta, difatti, di un libro che narra delle gesta di santi, ma di un’opera letteralmente intrisa, imbevuta di umanità, con tutte le meschinità e gli slanci che ci caratterizzano. Davide è una figura che, sebbene abbellita, non viene mai mistificata: si tratta pur sempre di un re, di un uomo che dei potenti ha condiviso in larga misura la logica di sopraffazione e di violenza, l’inganno ed il sotterfugio, l’astuzia e la crudeltà. Come ogni re che si rispetti, Davide ha di mira il potere ed il suo consolidamento: ogni ostacolo che possa minare o compromettere questo suo obiettivo va semplicemente rimosso, eliminato.
Il testo, poi, scritto con chiare intenzioni celebrative, attribuisce al gesto di Davide un significato più nobile di quello che, con ogni probabilità, esso ha avuto in origine: ma molta teologia, dovremmo saperlo, è servita nei secoli e serve ancora oggi a legittimare le ragioni e gli interessi del potere. Dovremmo stupircene e scandalizzarcene meno ed esserne più consapevoli, per maturare una fede che sappia ancora rivelarsi al contempo critica e profetica, anziché ossequiosa e condiscendente.
In tal senso ci viene incontro la figura più significativa del nostro brano: racchiusa nel ristretto perimetro di un versetto, è lei a rappresentare quella dignità che gli uomini che si avvicendano sulla scena non posseggono. Ecco perché vorrei intitolare quest’ultima riflessione: «quando la dignità è donna». La protagonista sa perfettamente, nell’intimità del suo cuore di donna poco avvezzo alla teologia ma ricolmo di umanità, che il Dio d’Israele non è un Dio assetato di sangue e che lo spirito di vendetta che gli viene affibbiato è in realtà una maschera messagli addosso dagli uomini. Non ha voce lei, ma soltanto nome: Rizpà, parola che in ebraico indica il suolo, il terreno. Salda nella sua fedeltà alla terra piuttosto che ad un cielo carico di promesse e di inganni, Rizpà urla con il suo silenzio un’ingiustizia che dalla terra sale al cielo, sino a commuoverlo e a scioglierlo in lacrime di pioggia e di pietà. Non parla Rizpà, non giustifica il gesto compiuto dal suo re come avran fatto i profeti di corte: agisce, invece, ed il suo gesto inesausto giunge sino alle orecchie del sovrano. Davide deve aver stentato a credere a ciò che glia avevano riferito: una donna si dibatte giorno e notte da mesi per difendere dei cadaveri.
Ma per Rizpà quelli non erano cadaveri: erano corpi in cui aveva abitato la vita e che più volte lei aveva stretto a sé in preda a un turbinio di emozioni. Ora, d’improvviso, quei corpi le erano stati sottratti con la violenza. Erano le spoglie dei suoi due figli, Armoni e Mefiboset; insieme a loro, i corpi inermi di altri cinque giovani, che Rizpà decide di difendere con la stessa caparbia fierezza, non più per amore, ma per pietà, dignità e senso di giustizia: tutto ciò che era mancato a Davide e ai Gaboniti.
Impressionato e forse anche scosso ed imbarazzato, il re manda a ritirare quelle spoglie abbandonate all’incuria e all’indifferenza: si arrende di fronte al gesto nudo e coraggioso di una donna e di una madre, che difende con le unghie e con i denti ciò che rimane della dignità di sette giovani uccisi con l’inganno. Una donna che rifiuta di indossare il sacco per osservare il lutto ed il cordoglio e che lo utilizza invece per proteggere altri corpi, inermi, e che fa così del segno della contrizione comandata il simbolo della resistenza offerta e della protesta dichiarata. Non china il capo Rizpà, non si rassegna: si batte, piuttosto, fino ad ottenere non giustizia, perché non si può riparare all’omicidio, ma almeno la dignità della sepoltura per quei corpi straziati. Lei, donna il cui nome evoca il suolo, consente il ritorno alla terra di quelle spoglie oltraggiate. Rizpà è figura di un riposo accordato, solamente, grazie al suo inesausto agitarsi intorno a corpi ormai privi di vita. È immagine della madre terra, che accoglie tutti come figli propri, senza distinzione.
E, insieme, è monito rivolto ai potenti, di ieri come di oggi, perché non dimentichino che anche il nemico è un essere umano e un fratello: e anche lui, in vita come in morte, ha diritto alla dignità.
Domenica 16 Settembre 2012 – Pastore
Alessandro Esposito