Va sfatata a livello mediatico la convinzione che le organizzazioni criminali abbiano un fatturato pari a circa il 10% del Pil».
Il ricavo annuo è calcolato all'interno della ricerca "Gli investimenti delle mafie", commissionato dal Viminale al centro di ricerca Transcrime dell'Università Cattolica di Milano e che viene presentata oggi in ateneo.
La torta che finisce nelle tasche di ‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra e Sacra corona unita è solo una fetta – tra il 32% e il 51% - dei ricavi che generano ogni anno le attività illegali, pari in media a 25,7 miliardi. Più o meno l'1,7% del prodotto interno lordo (Pil) o, se preferite, 427 euro per abitante. Ma la criminalità – organizzata o meno, italiana o straniera – può fare di meglio: la ricerca stima che il fatturato annuo non scende sotto i 17,7 miliardi e può arrivare a 33,7.
Il focus sulle mafie italiane è interessante perché quella forbice annua che oscilla tra 8,3 e 13 miliardi è formata per il 45% da estorsioni, seguito da droga, usura, contraffazione e sfruttamento sessuale. Camorra e ‘ndrangheta raccolgono quasi il 70% dei ricavi: la prima incassa in media 3,75 miliardi, la seconda poco meno (3,49) mentre Cosa nostra, che non è più da tempo la principale mafia economica del Paese, si assesta a 1,87 miliardi.
Nel portafoglio delle mafie entrano soprattutto immobili (al Sud) e aziende (centro-nord). Spiccano abitazioni e terreni mentre tra le imprese la ragione sociale privilegiata è la srl. L'investimento immobiliare – spiega il team capeggiato dal professor Ernesto Savona – non è quasi mai speculativo. Trova conferma che gli investimenti mafiosi hanno nature diverse. Quello nelle aziende risponde alla massimizzazione del profitto economico, all'esigenza di riciclare o occultare le attività criminali, alla ricerca del consenso sociale e alla necessità di controllare il territorio.
La redditività non è, dunque, il primo obiettivo.