Giuseppe Panella, curando l’introduzione – “Controcanto del silenzio” – del “Canto dei bambini perduti” (Giacomo Cuttone e Gianmario Lucini, CFR, Piateda, 2013), cristallizza come “splendide e inquietanti illustrazioni” (p. 5) le dodici chine del pittore Giacomo Cuttone riprodotte nel libro coautoriale. Sono le opere d’arte, in bianco e nero, che hanno supportato come un vero e proprio fondamento di riferimento il poeta Gianmario Lucini nella com-posizione “multimediale” dei suoi testi poetici. Un’originale opera multimediale che sposa di nuovo poesia e teatro, e non solo. Ci troviamo di fronte cioè alle scritture poetiche e teatralizzate che sono raccolte sotto il titolo “Canto dei bambini perduti”. Una poesia, insomma, che costella una testualità molteplice: arte, poesia, teatro, voce narrante/lettore (per il prologo e sei recitativi), voce recitante/lettrice (per le letture delle sei poesie), musica, scena “oscurata o in penombra” (un leggio; un proiettore per la visione contemporanea delle chine “splendide e inquietanti illustrazioni”), il musicista…
Se Panella, nella sua introduzione a “Canto dei bambini perduti”, usa chiamare la sua lettura “Controcanto del silenzio”, non è tanto per il vezzo del “contro” quanto per rilevare propriamente e ad arte totale il senso impegnato di questa “perdita” e del silenzio che urlano con le chine del pittore Cuttone e le parallele poesie di Lucini. Non c’è giudizio più forte, conflittuale e antagonista, nel baccano generale della chiacchiera derealizzante della virtualità contemporanea, di quello espresso con i “segni” della poesia e dell’arte; della poesia e dell’arte che non dimenticano, come l’arte pittorica di Cuttone (che ne ha cura in forme e supporti formalmente differenziati) e la scrittura poetica di Gianmario Lucini, le tragedie del mondo civile e politico del nostro tempo giocato al massacro. Il massacro che vede la “perdita” crudele quanto ingiustificata dei bambini che vengono rubati, uccisi, venduti, straziati e derubati della loro innocenza.
Denise è poesia che se ne va,
innocenza che si imbotta nel buio,
la bellezza che ci nasconde i suoi significati
e noi siamo qui, nella nostra aridità, disperati
vuoti, a macerare nella nostra nostalgia,
a vivere in un tempo che non può tornare,
perché l’innocenza è da sempre
esiliata dal mondo (p. 22)
E l’innocenza, come canto contro-canto di una “poesia” parlata e silenzio contro-silenzio di una “china” con-figurata, che, per i due (Lucini e Cuttone), è la voce dell’impegno alla verità come denuncia e persecuzione dei colpevoli.
Innocenza come atto di accusa e di condanna specie per quelli che sanno, tacciono, o indifferenti per apatia o quieto vivere lasciano morire il futuro della vita con la somministrazione e l’amministrazione criminale della “morte” o della perdita irreparabile e irreversibile dell’infanzia. Una perdita che rimane senza parola e doppiamente: un’infanzia cioè impossibilitata a parlare prima come corpo in-fante (senza parola) e poi come corpo privato della vita, lasciato al “buio”. Quel buio che, come scrive il poeta in un distico di “Poesia del senso dell’addio” (p. 27), è “il silenzio occhiuto della pietra / che brilla nell’assenza dell’agàpe”.