Ma allora, è possibile “morire bene”? Salvo se si muore senza rendersene conto, falciati brutalmente, in un istante, da un incidente, ciascuno di noi dovrà affrontare questa realtà ultima. Siamo davanti a una realtà nuova. Sì e no. Evidentemente la morte non è nuova, tuttavia, le condizioni della morte sono molto cambiate. Quello che rimane è che “la morte è impensabile”. Malraux, nel magnifico testo di Lazare, che ha scritto all'ospedale, ha delle pagine impressionanti. Lui che ha rischiato la vita in molte occasioni, medita sul letto su ciò che può essere la sua agonia. Certo, si può pensare alla morte, prepararvisi, ma la morte in sé, ciò che Malraux chiama il nostro “trapasso” è fuori dalla nostra portata: “Ogni dialogo con la morte comincia nell'irrazionale. Sappiamo che la morte è impensabile, nessuno ne ha coscienza”.E, anche lui, fa la constatazione di quel “corpo che si difende con tanta forza” e di quella paura che ci stringe proprio perché la morte ci è inconcepibile. Tuttavia, al di là dell'angoscia nostra, dal momento che, essendo dotati di coscienza, noi sappiamo che moriremo, la nostra epoca introduce una strana novità. Le condizioni della morte sono cambiate. Ormai, siamo in molti, in un'età molto avanzata o dopo una lunga battaglia contro la malattia, a ritrovarci in una via di mezzo dove ci porta il progresso delle terapie. Le discussioni sul fine vita hanno di mira quel momento. Non sappiamo se è bene che noi lo viviamo “fino in fondo”.
Non sappiamo se sapremo sopportarlo. Temiamo di imporlo ai nostri cari. In questa materia, tre grandi timori si uniscono: quello di lasciare coloro che amiamo e che forse hanno bisogno di noi – e il dispiacere di morire senza che qualcuno senta la nostra mancanza non è certo meno vivo -, la sofferenza di quell'impensabile che è la morte e la rivolta della carne che si tradisce in dolore. Ecco perché la cura verso i morenti è un accompagnamento. Non basta attenuarlo il più possibile, addormentandolo, il grido del corpo che si rifiuta di morire, bisogna anche avanzare verso il “non essere più” o, se si è credenti, verso un “essere altro”, un “essere al di là”, di cui non sappiamo niente. Su questo cammino, l'esperienza mostra che una mano fraterna è il più prezioso dei viatici.
Resta il fatto che non immaginiamo con gioia questa ultima tappa. Pochi di noi, come Stéphane Hessel, oseranno andare verso la morte pensando che essa è “forse l'esperienza più interessante della vita”. Quando parliamo di eutanasia, quando i sondaggi rivelano che otto francesi su dieci si augurano di poter scegliere la loro morte, senza dubbio è l'ammissione della paura assolutamente legittima di non saper fare. Al di là del terrore davanti ai trattamenti pesanti, davanti al disfacimento del corpo, c'è senza dubbio il sogno di “morire senza morire”, cioè di scavalcare questa via di mezzo, di evitare la lotta. Dato che l'esito è conosciuto ed è fatale, è proprio necessario battersi fino alla fine? Il modello della capra di Monsieur Séguin che combatte tutta la notte, pur sapendo certa la sua fine, non ha molto successo. Dov'è l'onore, dov'è la dignità, dov'è la libertà di un essere umano?
È nel diritto di scegliere di morire o in quello di vivere, di combattere... e di morire? Certamente non vi è una risposta standard. In questa materia, ogni avventura, ogni battaglia è unica. È saggio tuttavia che la legge metta dei paletti, perché colui o colei che muore non è solo. Per quanto lo esiga la nostra libertà, noi apparteniamo ad una comunità umana, e la nostra vita, come la nostra morte, non ci appartengono totalmente.
Christine Pedotti in “Témoignage chrétien” -