L’etica è da sempre un campo estremamente delicato e complesso, nel quale le chiese, in primis quella cattolica ma non soltanto, hanno sempre preteso di legiferare, dimostrando scarsa se non nulla attenzione ai cambiamenti di quella società in cui, troppe volte, esse sembrano non vivere. Le trasformazioni sociali e culturali imbarazzano le chiese, anche se, di per sé, vorrebbero soltanto interrogarle: ma chi si considera mater et magistra le domande le fa, non accetta in alcun modo di riceverle. Al contrario: proprio come una corte suprema essa emette sentenze inappellabili, preferibilmente di condanna. Per cui: giornata catastrofica, verdetto ingiusto e lesivo degli inalienabili diritti della «sacra famiglia».
Quest’ultima va sempre declinata secondo l’inalterabile modello tradizionale, che non rientra negli aspetti relativi all’organizzazione sociale e alla configurazione culturale, ma riguarda, secondo i dotti teologi fermi ad un’impostazione medievale del pensiero e dell’etica, nientemeno che la natura, sottinteso quella umana, va da sé definita in maniera esatta ed immutabile, naturalmente dalla più infallibile delle discipline pseudo-scientifiche, la teologia morale, con i suoi totem e i suoi (infiniti) tabù.
Ho appreso che, quando notizie come questa vengono date in pasto alla cronaca, la cosa più spassosa, se non fosse in realtà offensiva e deprimente, è leggere i commenti dei quotidiani cattolici. Su tutti, l’impareggiabile Avvenire, il quotidiano finto-progressista della CEI, su cui, tra le altre, è stata pubblicata la mirabile intervista al direttore di Catholic on-line, tale Keith Fournier che, con parole che sembrano provenire da un’università teologica del XIII secolo, ammonisce e pontifica: «Nella sentenza pronunciata dalla Corte Suprema non compaiono parole come legge naturale, morale, tradizione, e il rispetto (ma nell’accezione che Fournier dà a questa parola bisognerebbe leggere: l’ossequio) che le autorità civili devono a tali principi (…) È un segnale preoccupante – continua – perché stabilisce il principio che la legge civile che determina i principi di una società è malleabile e può essere cambiata per adattarsi ai capricci (sic!) o alle tendenze dell’opinione pubblica». Nemmeno un accenno al riconoscimento di diritti fondamentali: chi li difende è considerato alla stregua di un bambino capriccioso o di un immorale, per giunta sciocco, che non fa altro che seguire le insulse e per di più perverse mode del tempo che gli è toccato in sorte di vivere.
La manifestazione di opinioni diverse dai diktat moraleggianti del magistero cattolico non ha alle spalle un pensiero, va denigrata e offesa, perché semplicemente non esiste se non nella forma di un inaccettabile dissenso, che va represso, mai ascoltato.
Le reazioni del mondo evangelicale, che sulla stampa italiana, notoriamente, non hanno alcuna risonanza, non sono state di tenore diverso, mentre assai distinti sono stati i commenti, estremamente favorevoli alla sentenza, delle chiese appartenenti al cosiddetto protestantesimo storico. Per quel che riguarda l’universo protestante, la questione fondamentale concerne (lo sappiamo bene) l’autorevolezza del testo biblico che, in casi come questo, crea non pochi grattacapi a chi voglia affermarla sempre e comunque. Il nostro testo di oggi è al contempo chiarissimo e indifendibile: vediamo un po’ più da vicino che cosa dice.
Anzitutto: il rapporto (quello sessuale: unica, costante ossessione dei religiosi – maschi – di ogni tempo) tra un uomo e un altro uomo è definito abominevole. «Un’affermazione antiquata, che ha fatto il suo tempo» - si dirà. Ma a pensarla così ci si illude. Ci viene in soccorso, ancora una volta, l’imperdibile quotidiano della CEI che, a pagina due dell’edizione di giovedì 27 giugno 2013, riporta l’illuminante opinione sulla realtà dell’omofobia del giurista Francesco D’Agostino: «Da più parti si sottolinea che potrebbe essere denunciato come istigazione all’omofobia anche il semplice definire perversione l’omosessualità (utilizzando un’espressione […] condivisa fino a pochi anni fa da decine di studiosi di psicopatologie sessuali)».
È il metodo di sempre: si discrimina e poi si gioca a fare le vittime. «Non sarà più nemmeno possibile definire l’omosessualità come una perversione»: come a dire, definirla tale è un diritto di chi la pensa in questo modo; se non lo si potrà più dire, si lede la libertà di opinione. Peccato che non si tratti di un opinione ma di un pregiudizio, come di consueto ammantato di pseudo-scientificità: sarebbe ormai tempo di dire a chiare lettere a questi signori che, nel caso in cui ancora non se ne fossero accorti, l’unica psicopatologia sessuale è quella della chiesa che, non intendendo riconoscerla, la individua nei comportamenti non omologati al rigido codice morale stabilito per tutti da un gruppo di maschi celibi.
Dunque, le convinzioni di un tempo sono tutt’altro che scomparse. L’atto sessuale tra uomo e uomo (guarda caso l’unico esempio citato in un codice scritto interamente da maschi) è riprovevole: e l’affermazione non si discute, poiché è biblica. Così concludono alcuni tra i letteralisti più intransigenti. Risponde loro, in maniera al contempo acuta e garbata, la pastora e teologa Gabriella Lettini che, nel suo libro Omosessualità, scrive:
«C’è chi adotta un’interpretazione letterale del testo, inteso in quanto tale come rivelazione divina; e c’è chi crede che la parola di Dio non possa coincidere esattamente con le parole umane, legate ad un determinato contesto storico, sociale e culturale […] Dobbiamo stare bene in guardia, visto che la nostra storia è macchiata da una serie infinita di tragici errori di interpretazione, basata non solo su incomprensioni culturali, ma anche su scelte di comodo […] Credo che la bibbia abbia molto da dirci su come vivere oggi: ma non la leggo come se fosse un libro di ricette. Essa non presenta prescrizioni etiche dettagliate e adatte ad ogni situazione».
Insomma, è tempo (anzi, il tempo è già trascorso) di rivedere in ambito protestante l’affermazione secondo cui il testo biblico è parola di Dio nel senso di una piena infallibilità: tanto più che, nel nostro testo, emerge un particolare di ordine psicologico che ci suggerisce che chi ha materialmente formulato la legge e redatto il suo testo temesse di potersi sbagliare. La pena prevista per il reato di omosessualità è la condanna a morte de i due amanti: trattandosi di una pena che prevede spargimento di sangue, se non dovesse trattarsi di volere divino ma di intransigenza umana è bene prendere le opportune precauzioni. Lo si fa con una formula scaramantica e, in definitiva, auto-assolutrice: «Il loro sangue ricada su di loro». Ovverosia: io comando che vengano uccisi, ma come conseguenza di una colpa che è loro e non mia. Insomma: la loro condotta è ciò che li condanna, io, il legislatore, non faccio altro che eseguire il giusto verdetto. Il giudizio che scende sul loro atto riprovevole perché impuro non è mio, è di Dio: io, il legislatore, rendo soltanto esecutiva la sentenza divina.
È l’ipocrisia di sempre, quella che contraddistingue quei pii religiosi che, come diceva De Andrè, «lo sanno a memoria / il diritto di Dio / ma scordano sempre il perdono»: con l’aggravante che, qui,non c’è nulla da perdonare. L’omosessualità infatti – o, come preferisco dire, l’omoaffettività – è un modo del tutto naturale di amare: e Dio, come abbiamo sostenuto insieme tre anni orsono, vuole l’amore, non lo giudica; al contrario, lo accompagna, lo incoraggia, lo alimenta. Bisogna continuare a dirlo con fermezza, anche contro ciò che affermano alcuni isolati versetti biblici, richiamandosi a un aspetto che viene prima del tanto venerato sola scriptura.
Anche questo caposaldo della Riforma, difatti, se pretende di diventare un principio assoluto e indiscutibile, finisce per irrigidirsi e diventare uno strumento di oppressione poiché, a ciò che il principio sancisce, tutto, compresa la vita con le sue insanabili contraddizioni, deve obbedire, spesso al prezzo di rimanere soffocata.
Che cosa fare, allora? Come arginare il rischio di anarchia, immancabilmente richiamato dai solerti guardiani dell’ortodossia?
Un modo c’è e, in maniera assai concreta, come suo solito, Gesù l’ha proposto: naturalmente, è rimasto inascoltato, perché è più facile ancorarsi alla solidità del principio, per quanto inflessibile, che assumersi la responsabilità della decisione. Quando gli fu contestata la sua libertà di interpretazione della legge, Gesù rispose ai suoi accusatori: «Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2:27). L’essere umano e la sua piena dignità stanno al centro, non la legge, che non deve mai perdere di vista le donne e gli uomini per cui essa è stata stabilita. Se una legge non è al servizio della dignità umana ma, al contrario, la viola e la mortifica, abbiamo il dovere di trasgredirla e di riscriverla. Noi, non Dio? Sì, noi, perché le leggi sono il frutto della nostra inesausta, imperfetta fatica; e, spesso, anche l’amaro specchio di quel pregiudizio che mettiamo in atto e fatichiamo poi a riconoscere. Il compito di interpretare la legge e di riformularla è un compito pienamente umano, di cui dobbiamo assumerci la responsabilità di fronte a Dio e agli uomini: perché, concludeva Gesù, «il figliol d’uomo (in vista del quale ogni legge è scritta) è signore anche del sabato» (Mc 2:28)
Domenica 30 Giugno 2013 – Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com