le religioni sotto processo
Questo processo sembrava subire tuttavia una battuta di arresto con l'avanzare del fenomeno della secolarizzazione, che, a partire dagli anni '60 del secolo scorso, si è trasformato da fenomeno elitario in fenomeno di massa. L'esito non poteva che essere - era questa l'opinione di molti esperti di sociologia religiosa - l'accantonamento della religione in genere (e di quella cristiana in particolare), che non ha più bisogno di essere combattuta, essendo diventata del tutto irrilevante. La mentalità secolare, alimentata dai media, è infatti caratterizzata da una visione dell'uomo e del mondo, che prescinde da qualsiasi riferimento religioso. A venire esaltata è l'autonomia degli ordini mondani come reazione a indebite forme di sacralizzazione, che avevano per molto tempo assoggettato l'uomo a un ordine trascendente, destituendolo di fatto della propria responsabilità storica. Eppure, nonostante queste premesse, l'ateismo militante non è venuto meno, anzi sembra quasi essersi preso, nel primo decennio del nuovo millennio, una radicale rivincita. A favorirne il rilancio ha contribuito senz'altro il tragico episodio del crollo delle due torri gemelle di New York l'11 settembre del 2001. La giusta esecrazione di quanto avvenuto - una orribile carneficina con alcune migliaia di morti, con l'aggiunta di un colpo mortale inferto alla credibilità dei sistemi di sicurezza americani - è sfociata negli States in una campagna denigratoria nei confronti della religione islamica, ritenuta responsabile, in ragione del suo fanatismo, dell'atto criminoso.
La rivolta non si è limitata tuttavia al solo islam, ma ha finito per coinvolgere l'intero mondo delle religioni, come si può desumere dal testo divenuto un bestseller di Sam Harris, La fine della fede, al quale l'autore diede inizio (come egli riferisce) il giorno stesso del crollo, e che rappresenta un atto di accusa nei confronti di tutte le religioni le quali vengono definite «assolutamente dannose» per l'umanità. Da allora - e soprattutto negli anni dal 2004 al 2009 - viene sfornata una serie nutrita di testi che riprendono la tesi di Harris, arricchendola di volta in volta con l'elencazione delle ben note (e in verità non ingiustificate) accuse mosse alle religioni in genere (e ad alcune in particolare), quali la responsabilità di aver alimentato (e di alimentare) la violenza, di perpetuare la
soggezione della donna, di costituire un freno al progresso, soprattutto nell'ambito delle questioni attinenti la sfera della bioetica e il riconoscimento dei diritti civili, di concorrere ad emarginare intere categorie di persone - si pensi in particolare agli omosessuali - e via di seguito. Sono noti in proposito anche da noi, per la risonanza editoriale che hanno avuto (grazie alla traduzione in lingua italiana), volumi come Rompere l'incantesimo di Daniel Dennet e Dio non è grande di Christopher Hitchens; ma la palma d'oro di corifeo dello smantellamento delle ragioni della religione va forse assegnata a Richard Dawkins, che, oltre ad essere l'autore di un libro di successo dal titolo emblematico La delusione di Dio, ha anche inaugurato nel 2009 una campagna pubblicitaria di larga diffusione popolare, che è approdata sugli autobus americani, all'insegna dello slogan «Probabilmente Dio non c'è, adesso smettila di preoccuparti e goditi la vita». Si assiste così al farsi strada negli States di un'aggressione antireligiosa da parte di una schiera vasta ed agguerrita di «missionari», la cui azione non si accontenta di denigrare i contenuti dottrinali e le pratiche cultuali delle diverse religioni, ma indirizza i propri strali anche verso tutti coloro - agnostici o atei tiepidi - i quali, pur professando pubblicamente il loro distacco dalla religione, manifestano rispetto per chi aderisce alle credenze religiose. Il rifiuto delle religioni non è dunque legato soltanto alla considerazione dei reati da esse commessi nel corso della storia (e in alcuni casi tuttora in corso); investe, più radicalmente, il fenomeno religioso in quanto tale, che viene considerato come una forma di mistificazione della realtà, con esiti gravemente controproducenti (e regressivi) per il genere umano. Il già citato Richard Dawkins, ad esempio, denuncia apertamente la «totale idiozia» della fede, e perciò l'esigenza del suo radicale ripudio «non solo perché falsa, ma soprattutto perché è un male in sé».
il rifiuto della «teologia politica»
Questa lotta senza quartiere al fenomeno religioso in quanto tale non è peraltro riconducibile al solo ambito della società americana. Anche il nostro paese ha conosciuto negli ultimi decenni (e conosce tuttora) la presenza di rigurgiti di ateismo militante di estrazione positivista - si pensi soltanto a Piergiorgio Odifreddi o ad alcuni esponenti della bioetica «laica» - che guarda con sospetto a ogni riferimento religioso, giudicandolo aprioristicamente come anacronistico e soprattutto come antiscientifico. Gli stereotipi, che vengono in questi casi abitualmente richiamati, si appoggiano a una visione della realtà, nella quale a venire pregiudizialmente escluse sono questioni come quelle della verità e del senso, che pure costituiscono il presupposto fondamentale di larga parte della riflessione filosofica di tutti i tempi.
In questo contesto si inserisce anche il recente volume di Rosario Esposito Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero (Einaudi, Torino 2012), nel quale si mette radicalmente sotto processo il concetto di «teologia politica» considerato come una categoria portante (e deviante) della cultura occidentale; un paradigma che ha segnato profondamente di sé l'interpretazione della realtà (con riferimento in particolare all'attività umana nel mondo), fino a determinare in negativo l'intera evoluzione della civiltà dell'Occidente. A riprova della persistenza e della pervasività di questo concetto, divenuto un imprescindibile modo di pensare, Esposito sottolineava in una recente intervista concessa a Repubblica - come le stesse categorie di secolarizzazione, di disincanto, di relativismo e di ateismo attraverso le quali si tende ad esprimere l'emancipazione dell'uomo dal discorso religioso, non siano in realtà che concetti teologici negativi o rovesciati, che risentono pertanto della dipendenza dalla loro origine religiosa.
Per non parlare poi del concetto di «paternità», desunto direttamente dalla paternità divina, che è
divenuto il modello principale al quale si è ispirata (e tuttora in parte si ispira) l'azione politica e che si traduce in un modo verticistico di intendere e di esercitare il potere che ha poco a che fare con le dinamiche della democrazia, il cui pilastro portante dovrebbe invece essere il concetto di «fratellanza». La critica di Esposito non fa che riprendere, del resto, dando ad essa piena giustificazione attraverso l'indicazione di alcuni rimandi significativi, la tesi a suo tempo formulata da Carlo Schmitt secondo il quale «tutti i concetti politici sono concetti teologici secolarizzati».
La contestazione del fenomeno religioso e della sua incidenza negativa sulla conduzione della vita collettiva raggiunge qui il livello più radicale. Ad essere messo sotto processo è infatti il ruolo determinante della tradizione cristiana nella elaborazione della cultura (e del linguaggio) del mondo occidentale; un ruolo che non può, d'altronde, essere cancellato, senza che si addivenga alla cancellazione di una parte rilevante delle strutture portanti, soprattutto valoriali, proprie della storia dell'Occidente.
quale giudizio?
La radicalità di queste posizioni, caratterizzate da accenti dogmatici e da motivazioni settarie più che dal ricorso a serie argomentazioni di carattere razionale, ha fatto dire a John Gray, allievo di Isaiah Berlin, che la odierna predicazione della miscrerdenza ha, paradossalmente, un'impronta religiosa. Il forte senso di risentimento che emerge negli scritti dei «nuovi atei» - così vengono talvolta definiti - non può che stimolare in chi crede un severo esame di coscienza circa le ragioni che hanno prodotto tali forme di reazione e di rifiuto. E fuori dubbio che le religioni, non esclusa quella cristiana, sono state (e sono) responsabili di errori (e di colpe) dei quali devono farsi carico chiedendo pubblicamente perdono agli uomini. E questo non solo in riferimento a quanto avvenuto in epoche lontane (ed oscure) ma anche in relazione a fatti recenti: si pensi soltanto, per rimanere nell'ambito della chiesa cattolica, alla vicenda dei preti pedofili o, sia pure sotto una prospettiva diversa, allo sconcerto provocato in molti - credenti e non - dall'atteggiamento di forte ostilità da essa assunto nei confronti di alcune battaglie civili - quella del riconoscimento delle coppie di fatto (in particolare omosessuali) in primis - o nei confronti di questioni sollevate dalle nuove frontiere aperte dagli sviluppi della tecnologia in campo biomedico.
Tutto ciò non giustifica tuttavia (e non può giustificare) la rozzezza di interventi spesso del tutto gratuiti che hanno uno scopo meramente denigratorio e che non tengono in alcuna considerazione l'apporto positivo che le religioni hanno offerto alla società, alimentando la coesione sociale attraverso un'etica (peraltro nei suoi elementi essenziali piuttosto omogenea, al di là delle differenze proprie delle diverse tradizioni religiose) incentrata sul controllo degli impulsi egoisti e sullo sviluppo di forme di solidarietà, radicate in una concezione trascendente della vita, nonché fornendo risposte plausibili a domande essenziali (e inquietanti) come quelle riguardanti il dolore e la morte, che segnano la vicenda personale di ciascuno. Come non giustifica, d'altronde, l'attacco, rivolto in questo caso al cristianesimo, di avere contribuito, in nome del concetto di «paternità», a sviluppare in Occidente forme di governo autoritarie, quando è risaputo che il concetto di «fraternità» costituisce, a tutti gli effetti, uno dei capisaldi fondamentali del messaggio evangelico e che la sua fondazione sulla paternità di Dio non fa che rafforzare il senso dell'appartenenza comune e favorire, anche sul terreno della vita associata, forme di relazione improntate al riconoscimento dell'uguaglianza e della pari dignità di ogni persona umana, perciò favorevoli allo sviluppo della democrazia. Del resto esistono laici di grande serietà intellettuale - è sufficiente ricordare qui, tra gli altri, Massimo Cacciari - che non solo riconoscono il prezioso contributo esercitato dal cristianesimo sulla maturazione di valori fondamentali per lo sviluppo della vita democratica - valori che tuttora persistono, sia pure in forma laica, come fattori essenziali di cementazione del tessuto sociale - ma che ritengono, più radicalmente che il riferimento alle radici teologiche rappresenti una risorsa decisiva per la costruzione di una società ordinata e giusta. Non mancano pertanto buone ragioni per sostenere, al di fuori di qualsiasi pretesa apologetica, che il discorso sulle religioni è un discorso complesso, che va affrontato, da tutte le parti, con rigore e onestà, mettendone con franchezza in evidenza le ombre, ma non trascurandone le luci. Non dimenticando, in altre parole, il prezioso apporto da esse offerto alla maturazione della coscienza dei singoli e alla enucleazione di istanze valoriali che costituiscono un riferimento indispensabile per lo sviluppo di una matura convivenza civile.
Giannino Piana in "Rocca" n. 14 del 15 luglio 2013 - www.chiesavaldesetrapani.com