Fino al 2 Marzo 2014 è ancora possibile vedere, presso il Convento del Carmine di Marsala, i tredici dipinti dell’artista siciliano Antonino Leto di proprietà della Fondazione Sicilia, abitualmente custoditi nella sede di Palazzo Branciforti, restaurato da Gae Aulenti.
Nato a Monreale e cresciuto artisticamente nella seconda metà del XIX secolo fra Palermo, Napoli e Parigi, Leto terminò i suoi giorni senza clamori nella abitazione di Tragara, a Capri, accolto da un milieu culturale d’elezione.
Non mancarono nella sua vita una stagione romana e una fiorentina: ambienti che finirono con l’imprimerlo ma anche col provarlo nel corpo e nel cuore. Le tinte paglierine de la Scuola di Resina, l’impronta dei Macchiaioli, il segno impressionista che ebbe modo di conoscere grazie a De Nittis, lo sedussero fino a spingerlo verso un lavorio complesso e continuo sulla sua pittura delle origini e a superare ogni possibile virtuosisimo espressivo, consueto nella sua generazione ed educazione.
Pittore di talento ma cagionevole, protetto dalla casta imprenditoriale dei Florio, Leto si avventurò con devozione e perizia tecnica fra i flutti di un realismo espressivo e vivace, lasciando scorci immediati, spumosi, eppure riflessivi di paesaggi antropizzati disincantati, vibranti, iridescenti.
Definito nel Dizionario degli artisti siciliani di Luigi Sarullo, “il più importante e geniale pittore siciliano della metà dell’Ottocento”, Leto fu artista di grande tempra, articolato e complesso, a tratti eclettico.
Schivo, operoso, Leto non raggiunse mai gli onori del contemporaneo Francesco Lo Jacono e custodì, integro, il suo animo insofferente, tormentato come è possibile percepire dalle luci radenti della “Spiaggetta caprese” del 1882 o scorgere dai guizzi veloci delle pennellate del “Ragazzo sul prato” del 1888, tele presenti in mostra, sorprendenti per la loro piccola dimensione ma anche per la straordinaria, vibrante, possenza emotiva.
Nella preziosa esposizione lilibetana sono presenti due opere provenienti da casa Florio: una veduta dello stabilimento marsalese di famiglia, adagiato sulla costa, profilato dal mare, seguito da una linea terrestre balenante e umbratile che accompagna l’occhio lungo la costa che scivola verso sud; una seconda, titanica e vibrante, che narra la mattanza di Favignana cui Leto prestò la sua attenzione per ben sei anni.
Nella pesca del tonno Leto correla l’impeto umano, coinvolto nella lotta primitiva, eroica, aspra, con la natura, nelle tracce schiumose del sangue dei pesci affioranti, poveri martiri di una guerra impari, per numero e prodigalità di risorse, di un rito propiziatorio apotropaico, animato e collettivo.
Nell’ultima sala Leto fa giocare Zeus bambino, un monello rubicondo e festante, con una capra, strappandolo agli eccessi e alla supremazia che la sua divinità gli impone.
Completa l’esposizione una piccola tela rappresentante una marina disseminata di agavi screziate nella quale spicca, sullo sfondo, una barca custodita da un povero riparo di canne dal sapore verghiano: una luce ambrata, diffusa e radente sembra accompagnare gli occhi dell’osservatore consapevole di trovarsi al cospetto di uno scorcio irripetibile di mediterraneità univoca.
Francesca Pellegrino