Se tornando verso casa dalle ferie estive farete sosta a Roma, portate i miei saluti più cari a Frida Kahlo, la donna che avrebbe voluto essere medico e che invece fu artista.
O che, piuttosto, fu artista medico di se stessa.
Un saluto a Frida nella elegante cornice delle Scuderie del Quirinale, vi farà fare pace con le ferie interrotte, con il caldo di fine agosto che vi attenderà sull’uscio al termine della visita.
Introducetevi lemme lemme nelle sale delle Scuderie e rubatele un’occhiata, frontale, decisa, diretta. Osservate i suoi autoritratti, i suoi selfie ante litteram, luminosi e febbrili che la affermano nella sua ridondanza femminea, regale, spirituale e algida allo stesso tempo.
Qui leggerete il suo struggimento, il suo bisogno complesso e sinuoso di far convivere protagonismo e animo umbratile: bellezza e complessità in perenne equilibrio fra divino e terreno, umano e terreno, ferino e terreno, femminile, materno e ancora una volta terreno.
Il percorso che ha portato Frida all’arte non è dei più convenzionali né dei più frequenti: talento giovanile inizialmente poco coltivato, figlia di un fotografo tedesco che le dovette lasciare in eredità il rigore teutonico, intraprese, solo dopo la delusione di non potere proseguire gli studi di medicina, che aveva spontaneamente scelto, la strada della pittura.
Solo allora si arrese alla cura del disegno e dell’incisione come medicina destinata ad accompagnare la sua lunga convalescenza e che si rivelò, in itinere, un farmaco salvavita.
Forse, Frida si arrese in quel momento, all’ineluttabile, a quanto fino ad allora aveva temuto: alla tempesta dell’irrompente, dell’impulso, del segno; da questi lembi di stoffa, fatta di abbandono e bisogno di affermazione, però, la Kahlo ricavò un paracadute che la aiutò ad atterrare nell’Olimpo del mito.
Il destino tracciato negli anni successivi non sarà dei più semplici: già la nascita la aveva segnata sottoponendola a fragilità evidenti nel corpo e nell’animo ma la maturità la sottoporrà a conquiste e rinunce avviandola, contemporaneamente, verso una specificità espressiva oggi universalmente riconoscibile e verso una nuova chiave di lettura dell’arte, il Surrealismo, che ne accompagnerà i primi passi creativi convincenti.
“Il Surrealismo è la magica sorpresa di trovare un leone in un armadio dove si è certi di trovare delle camicie”, diceva l’artista Penrose che la ispirò e così Frida sceglierà di esprimersi fino a creare una cifra totalmente propria e divergente.
Con il Surrealismo Frida imparerà anche a giocare, cimentandosi, nelle piccole sciarade del “Cadavere squisito”, piccole performance oggi visibili in mostra.
Frida ragazza ha sperimentato, raccolto suggestioni. Ha approfondito i moduli della fotografia, registrato nelle stanze di casa e nei vicoli del Messico segni e oggetti della sua pittura, icone contemporanee di nuove nature morte destinate a diventare autoritratti impliciti.
Il Realismo Magico Italiano, la Nuova Oggettività Tedesca sosterranno le sue prime curiosità e la condurranno verso l’autonomia espressiva, così come lo Stridentismo messicano, debitore del Cubismo e Futurismo.
Su tutto questo Frida stenderà il velo trasparente della sua grazia, la sua fedeltà alla spiritualità di cui è testimone la curiosità per il dio Shiva, i figli mancati, le lacerazioni della carne, l’ amore robusto, irridente, fluttuante con l’allora più noto Diego Rivera, suo compagno di vita e d’arte.
Con Diego Frida darà vita a quella unità cosmica circolare, quell’unione imperfetta in cui quotidianità, amore e creatività diventeranno un’unica dimensione forte e divorante.
Con Diego la Kahlo affronterà le luci di New York che ricorderà nell’opera straordinaria “Il mio vestito è appeso là”.
Seppure meno suadente della più nota corposa sequenza di autoritratti noti all’intero cosmo, la tela, del 1933, mostra il costume messicano dell’autrice al centro della tela, appeso lungo un filo, in mezzo ad una collazione disordinata di simboli dell’America e di spunti ancora vitali nell’immaginario del mondo remoto. L’abito cerca un aforisma che lo identifichi; non vuole sopire ai tardivismi e non vuole cedere all’omologazione: intende distinguersi con rigore fra i segni perituri delle forme del mondo senza annullarsi.
Pochi anni prima di morire Frida si dedicherà con successo all’insegnamento. I suoi allievi dell’Accademia, fedelissimi, saranno detti “Los Fridos”.
Siamo anche noi, oggi, frutti tardivi di questa devozione: siamo tutti “Los Fridos”.
Per maggiori informazioni:
http://www.scuderiequirinale.it/categorie/mostra-frida-kahlo
Francesca Pellegrino