Oggi, 28 Dicembre, ricorre l'anniversario della strage del "Serraino Vulpitta" di Trapani.Nella notte tra il 28 ed il 29 dicembre del 1999, a Trapani, all’interno del centro di permanenza temporanea per extracomunitari “Serraino Vulpitta”, dopo un tentativo di fuga duramente sedato dalle forze dell’ordine, dodici immigrati vennero rinchiusi in una cella, bloccata dall’esterno con una sbarra di ferro. Uno di loro diede fuoco ai materassi nel tentativo di farsi aprire la porta.
Fu l’inferno. Nel rogo morirono subito, bruciati vivi, tre immigrati tunisini; altri tre moriranno nei mesi successivi in ospedale a causa delle gravissime ustioni riportate.
Il processo iniziato nel 2001, a carico dell’ex Prefetto di Trapani Leonardo Cerenzia, imputato di omicidio colposo plurimo, si è poi concluso con l’assoluzione, confermata nel 2005 da una sentenza della Corte di Appello di Palermo
Malgrado il processo avesse consentito l’individuazione di ritardi ed omissioni gravi che avevano determinato il tragico bilancio di morti, questa strage è rimasta impunita.
Una successiva sentenza del Tribunale civile di Palermo ha riconosciuto la responsabilità dello stato per i danni morali e patrimoniali subiti da due immigrati sopravvissuti al rogo. La decisione del giudice civile, però, non ha condotto all’accertamento di alcuna responsabilità personale.
Ecco l'appello del Coordinamento per la pace di Trapani:
3.419
Tremilaquattrocentodiciannove. Tanti sono stati, secondo una stima dell'Onu, i migranti inghiottiti dalle acque del Mediterraneo nel corso dell'anno che sta per concludersi. Proviamo a rileggerlo questo numero abnorme, magari a voce alta: tremilaquattrocentodiciannove.
Di immigrazione si continua a morire, nonostante tutto. Evidentemente, le grandi operazioni militari come Mare Nostrum, spacciate dalla propaganda di governo come encomiabili missioni umanitarie, dimostrano tutti i loro limiti nel momento in cui si scontrano con la brutalità delle cifre. Cifre che sono persone in carne e ossa, donne e uomini costretti a morire a causa di leggi disumane che ne impediscono la libertà di movimento. Nel 2014 sono stati oltre 207.000 i migranti che hanno tentato di attraversare il Mediterraneo, scappando da guerre e miseria. Certo, in molti sono stati salvati, ma se ci fossero canali regolari e sicuri, e se le maglie giuridiche non fossero così strette al punto da costringere gli immigrati e i profughi alla clandestinità, allora non ci sarebbero i viaggi della speranza, non ci sarebbero gli scafisti, non ci sarebbero i trafficanti di uomini, non ci sarebbero gli sfruttatori e gli sfruttati. Soprattutto, non ci sarebbero i morti.
Ragionare apertamente su tutto questo serve a contrastare uno dei maggiori pericoli dei nostri tempi: l'indifferenza. È proprio sull'indifferenza che i professionisti della politica e del terzo settore coltivano i loro interessi sulla pelle dei disperati. Ad esempio, le recenti cronache sulla mafia romana hanno svelato quanto sia ghiotto il mercato della cosiddetta accoglienza, con fascisti ed esponenti del Partito democratico pronti a sedersi al medesimo tavolo per spartirsi la torta e fomentare l'odio razzista nelle periferie della capitale.
Gestire l'immigrazione significa gestire soldi, potere, controllo sulle vite: non c'è bisogno di andare lontano per ricordarci delle recenti inchieste che hanno coinvolto la Caritas trapanese scoperchiando scenari abietti a base di ricatti sessuali e permessi di soggiorno.
Tenere gli immigrati in uno stato di perenne sfruttamento significa disporre delle loro vite come fossero oggetti da usare e poi buttare. Un po' come è successo a Bose Uwadia, costretta a prostituirsi a Trapani per pagare il debito contratto con chi l'aveva fatta arrivare in Italia, e poi ammazzata a Custonaci, molto probabilmente da un italiano.
Oggi, 28 Dicembre 2014, anche se il Centro di identificazione ed espulsione "Vulpitta" non c'è più, i quindici anni trascorsi dalla strage in cui morirono sei ragazzi imprigionati perché immigrati, ci consegnano la pesante eredità di un'Italia e di un'Europa che continuano a voltarsi dall'altra parte rispetto ai disastri prodotti dalle loro politiche di guerra e di esclusione.
Rabah, Nashreddine, Jamel, Ramsi, Lofti, Nasim non sono soltanto i nomi - che mai dimenticheremo - delle vittime del "Vulpitta", ma rappresentano il nome collettivo con cui ricordare - senza mai cedere all'indifferenza - tutte le vittime delle frontiere e dei razzismi.