Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
09/02/2015 06:30:00

Sicilia Acquaviti, comincia il processo a Marsala. Trapani, Librizzi sceglie l'abbreviato

Comincia oggi il processo sull’inquinamento alla Sicilia Acquaviti di contrada Digerbato a Marsala che vede come unico imputato Giuseppe Bianchi, 78 anni, legale rappresentante della azienda di distillati dal 2009 al 2011. Al processo si arriva dopo l’indagine della Dda di Palermo che aveva sequestrato l’area e aveva chiesto il rinvio a giudizio, oltre che per Bianchi anche per Fabio Volpe (legale rappresentante dell’azienda fino al 2013), accusati di ‘’illecito smaltimento di rifiuti di borlande fluite nel sottosuolo, deposito incontrollato di rifiuti di borlande sul suolo e deposito incontrollato di rifiuti liquidi di percolazione delle borlande’’. Il Gup di Palermo Ferdinando Sestito ha rinviato a giudizio Bianchi e prosciolto Volpe.
L’indagine, coordinata dai pm della Dda Teresa Principato e Maurizio Agnello, ai primi di maggio dello scorso anno era sfociata nel sequestro preventivo della distilleria Sicilia Acquaviti e di terreni circostanti per 162 mila metri quadrati (di proprietà di ‘’Ge.Dis.’’ e ‘’Pibiemme’’). Bianchi è stato anche titolare della ‘’Ge. Dis.’’ dal 1980 al 2012. A condurre l’inchiesta è stata la sezione di pg della Guardia di finanza della Procura di Marsala. Quest’ultima, poi, quando emerse la gravità del caso, trasferì gli atti, per competenza, alla Dda di Palermo, che comunque ha continuato a delegare l’indagine alle Fiamme Gialle della Procura marsalese. L’inchiesta inizialmente era coordinata dal procuratore di Marsala Alberto Di Pisa e dal sostituto Giulia D’Alessandro.Dall’inchiesta è emerso che scarti della distillazione, e in particolare ‘’borlande’’ (i cui principali componenti sono: propanolo, butanolo, metil-propanolo, pentanolo e altri pentanoli isomeri, nonché furfurale), sarebbero stati sversati sui terreni circostanti e all’interno di vicine cave di tufo abbandonate, finendo così nel sottosuolo.Inoltre, è’ stata scoperta una fossa in cui venivano stoccate vinacce esauste con un bacino di contenimento completamente ripieno di acque di lisciviazione/percolato delle stesse vinacce. Alla ‘’Ge.Dis’’, il cui impianto è inattivo da tempo, sono state invece riscontrate tracce del modo in cui avveniva l’illecito smaltimento dei rifiuti, sversati senza depurazione nelle acque del porto di Marsala. Alla Sicilia Acquaviti, i campioni delle sostanze prelevate sono stati analizzati dall’Arpa, che ha confermato ‘’l’illecito smaltimento di borlande, nonché la presenza di rifiuti di liquidi di percolazione delle borlande’’. Si è scoperto inoltre che la Sicilia Acquaviti non avrebbe rispettato le prescrizioni del Comune a proposito delle autorizzazioni allo scarico per i reflui industriali dopo la depurazione, nella fognatura, né era in possesso delle analisi delle acque reflue in uscita dal depuratore e della documentazione attestante lo smaltimento dei fanghi. In tal modo, avrebbe risparmiato non meno di 150 mila euro. A difendere Volpe è stato l’avvocato Arianna Rallo, mentre legali di Bianchi sono Maria Letizia Pipitone (che è anche responsabile del circolo locale di Legambiente) e Paolo Paladino. Il Comune è ‘’parte offesa’’, tant’è che quando scoppio il caso l’allora sindaco di Marsala Giulia Adamo dichiarò che il Comune si sarebbe costituito parte civile all’eventuale processo. L’impianto, a settembre, è stato dissequestrato su richiesta dell’attuale amministrazione della Sicilia Acquaviti, Pietro Buffa.

 

Concussione e violenza sessuale. Don Librizzi a giudizio col rito abbreviato
Ha scelto il rito abbreviato don Sergio Librizzi, l’ex direttore della Caritas di Trapani che la scorsa estate è stato arrestato con l’accusa di aver preteso prestazioni sessuali da immigrati. Verrà giudicato quindi sulla base degli elementi raccolti in fase di indagine e, in caso di condanna, il prete trapanese avrà la riduzione di un terzo della pena.
Il caso destò molto scalpore negli ambienti della curia trapanese. Otto i casi accertati solo da febbraio fino al momento dell’arresto, avvenuto a giugno 2014. In un caso il prete avrebbe costretto un nigeriano ad avere rapporti con lui per tre volte prima di dargli l’agognato pezzo di carta. Dopo le prime ammissioni delle vittime, la Procura ha imbottito la Fiat Punto di Librizzi di cimici, e le scene registrate sono inequivocabli: il direttore della Caritas in auto con la vittima di turno, si sbottona, si fa palpeggiare, toccare, lo costringe a dei rapporti sessuali. Già nel 2009, secondo una testimonianza raccolta dalla Procura nel corso delle indagini, iniziate a fine 2013, il prete avrebbe chiesto a un iracheno rapporti sessuali in cambio del documento. Secondo quanto messo a verbale dall’extracomunitario, il prete avrebbe detto: “Io sono una persona importante, faccio parte della commissione per il rilascio dei permessi di soggiorno, posso farti avere tutto facile o posso rendere tutto più difficile. Ma tu che mi dai? Ma non capisci che cosa voglio?”.
Librizzi si appresta ad affrontare il processo con rito abbreviato, difeso dall’avvocato Donatella Buscaino. Negli ultimi mesi Librizzi è stato visto molto provato, anche per questo forse si è deciso di andare a giudizio con il rito abbreviato. Anche per le sue precarie condizioni di salute gli vennero concessi gli arresti domiciliari. Il processo comincerà il 9 marzo prossimo, il prete è accusato di concussione e violenza sessuale.


Eolico e mafia. Alla sbarra l’imprenditore di Salemi Melchiorre Saladino
Riprende oggi, al Tribunale di Marsala il processo all’imprenditore di Salemi Melchiorre Saladino, alla sbarra per corruzione. Il processo a Saladino nasce dall’operazione antimafia “Mandamento”, del dicembre 2012, coordinata dalla Dda di Palermo in cui vennero arrestate sei persone accusate di aver favorito l’infiltrazione delle famiglie mafiose di Castelvetrano e Salemi nell’eolico. Saladino è accusato di aver versato 100 mila euro all’ex consigliere comunale di Castelvetrano e alla Provincia di Trapani Santo Sacco per convincere i colleghi di consiglio comunale ad approvare un progetto per la realizzazione di un parco eolico. Santo Sacco era tra i sei arrestato nell’operazione ed è stato condannata a 12 anni di carcere per estorsione e associazione mafiosa in primo grado dal Gup di Palermo.
Secondo l’inchiesta della Dda l’infiltrazione nel settore rinnovabili da parte delle cosche avveniva attraverso la sistematica acquisizione di lavori per realizzare impianti eolici e fotovoltaci in privincia di Trapani, Palermo e Agrigento. Il tutto serviva per sostenere la latitanza del boss latitante Matteo Messina Denaro. Saladino non venne arrestato nell’operazione Mandamento. Finì in manette invece nel febbraio 2009, nel corso dell’operazione Eolo, considerato l’anello di congiunzione tra imprese, politica e mafia. Saladino patteggiò una condanna per corruzione con l’aggravante di aver favorito cosa nostra. Questo è il background. E questo è quello che arriva agli atti del processo: un versamento di 100 mila euro per Santo Sacco che si sarebbe mobilitao per lui per approvare il progetto in consiglio comunale. I fatti sono stati registrati dalle intercettazioni telefoniche e ambientali. Proprio le trascrizioni delle intercettazioni sono state acquisite nel corso dell’ultima udienza del processo a Saladino. Acquisizione a cui non si è opposta la difesa perchè emergerebbe che saladino, inizialmente, non voleva pagare i 100 mila euro a Sacco con il quale ebbero un diverbio. “Questa presa in giro ve la faccio finire subito… a te, all'ingegnere, a tuo figlio e tutti quanto cazzo siete. Ci siamo capiti? Stai attento Melchiorre!” sono le parole dell’ex consigliere comunale e provinciale di Pdl e Forza Italia. Nell’udienza di Oggi depporrà in aula, come teste d’accusa, il maresciallo dei carabinieri Sergio Salvo.


Assolti per coltivazione di droga, il terreno era in affitto
Castrenze Camarda e la moglie Anna Maria Ingrao sono stati assolti dall’accusa di coltivazione di droca e detenzione illegale di arma da fuoco. I due coniugi sono stati arrestati 5 anni fa dalla Guardia di Finanza che scovò in un appezzamento di terreno dei coniugi, a Partinico, una piantagiano di marijuana di oltre 2 mila piante con tanto di impianto di irrigazione. La ricerca delle fiamme gialle partì dopo la segnalazione di un vicino, risultata poi calunniosa e che adesso si trova sotto processo. Durante la perquisizione venne trovata anche una pistola. Dal primo momento marito e moglie negarono ogni responsabilità dicendo di aver affittato il terreno a una persona.