Il gup di Palermo Marina Petruzzella ha assolto il 61enne boss mafioso marsalese Francesco De Vita da alcuni fatti di sangue dei quali si era autoaccusato quando, dopo l’arresto (2 dicembre 2009), aveva deciso di iniziare a collaborare con la giustizia. Per poi fare, però, fare dietro-front. De Vita si era autoaccusato di un omicidio (quello di Gaspare Zichittella, ucciso nelle campagne di Madonna Alto Oliva) e due tentati omicidi (vittime designate: Pietro Chirco e Antonino Titone) consumati nel corso della faida del 1992. Ma adesso il gup Petruzzella, a conclusione del processo con rito abbreviato, lo ha assolto da quei reati. Condannandolo, comunque, per associazione mafiosa in continuazione con la pena all’ergastolo, ormai definitiva, che il De Vita sta scontando per mafia e per l’omicidio di Giovanni Zichittella, ucciso a Marsala, nella zona di Porticella, il 15 giugno 1992. Di quel “gruppo di fuoco” avrebbero fatto parte anche Vincenzo Sinacori e Antonino Gioè. E in versione di “registi” del commando, anche Gioacchino La Barbera e Leoluca Bagarella. Giovanni Zichittella, detto “Vanni”, anziano pastore, era padre dell’ex affiliato a Cosa Nostra e poi “stiddaro” Carlo Zichittella, che successivamente, persa la guerra con la locale famiglia mafiosa, decise di collaborare con la giustizia. Dalle dichiarazioni rese da De Vita dopo l’arresto ha preso le mosse l’indagine della Dda di Palermo che all’alba di lunedì è sfociata nell’operazione dei carabinieri “The Witness”, che ha portato all’arresto di Antonino Bonafede, 79 anni, pastore e vecchio “uomo d’onore”, considerato il nuovo “reggente” della famiglia mafiosa di Marsala (avrebbe, quindi, preso il posto del figlio Natale Bonafede, in carcere dal 2003 con un ergastolo definitivo), di Martino Pipitone, di 64 anni, ex impiegato di banca in pensione, anch’egli in passato già arrestato per mafia, e di due incensurati: Vincenzo Giappone, 53 anni, pastore, e Sebastiano Angileri, di 48, fabbro. La sentenza del gup Petruzzella, però, secondo l’avvocato Giacomo Frazzitta, difensore di De Vita, "viene un po' a incrinare la credibilità” di un soggetto che viene assolto per i fatti di sangue dei quali si era autoaccusato. Nel 2009, Francesco De Vita fu arrestato dai carabinieri dopo circa 10 anni di irreperibilità. Allora, era inserito nella lista dei 100 latitanti più pericolosi d’Italia. Dopo lunghe ricerche, i CC lo individuarono in una villetta di contrada Ventrischi. A De Vita l’ergastolo fu inflitto nell’ambito del processo ‘’Patti + 40’’, scaturito dall’operazione ‘’Lilybeo’’ dell’1 aprile 1993, che vide finire in carcere 50 persone accusate di avere partecipato, direttamente o indirettamente, alla ‘’guerra’’ del 1992. Al momento dell’arresto, Francesco De Vita, trovato disarmato, non oppose resistenza. A coordinare le indagini svolte dai carabinieri fu il procuratore aggiunto della Dda di Palermo Teresa Principato. Indicato dagli inquirenti come il braccio destro dell’allora reggente della "famiglia" mafiosa di Marsala, Vito Vincenzo Rallo, tornato a guidare la cosca nel luglio del 2007, dopo la sua scarcerazione, e con la "benedizione" del boss superlatitante Matteo Messina Denaro, il De Vita, la cui abitazione è in via Marettimo, aveva fatto perdere le sue tracce nel 1999. In concomitanza con la sentenza dei giudici della seconda Corte d'Assise di appello di Palermo che confermarono la sua condanna all'ergastolo per l'omicidio di Vanni Zichittella. Con Francesco De Vita, nel 2009, furono arrestate anche quattro persone, proprietarie della villetta recintata, accusate di avere favorito la sua latitanza. E cioè Matteo Ventimiglia, pescatore, la moglie Carmela Rita Impicciché, casalinga, la loro figlia Lucia Ventimiglia e il marito di questa, Nicola Toro, un imprenditore che gestiva una piccola fabbrica che realizzava piscine. Tutti e quattro erano incensurati e fino a quel giorno risultavano estranei a ambienti criminali. Per incontrarsi con il latitante, spiegarono gli inquirenti, i suoi parenti utilizzavano tutta una serie di accorgimenti per depistare le forze dell’ordine. In particolare, prima di raggiungere la villetta-covo, erano soliti cambiare più volte l'auto. ‘’Alla sua cattura - disse il procuratore aggiunto di Palermo, Ignazio De Francisci - siamo arrivati grazie ad attività tecniche’’. Oltre su una rete di fiancheggiatori, Francesco De Vita poteva contare - sottolineò l’allora comandante provinciale dei carabinieri, colonnello Giovanni Pietro Barbano - su ‘’un velo difficile da squarciare, su un ambiente ancora permeato di omertà e su possibili sentinelle pronte a dare l'allarme’’. Secondo quanto accertato dai carabinieri, De Vita si trovava in quella villetta da sei mesi. Nel corso della perquisizione, furono trovati e sequestrati assegni per un importo complessivo di 35 mila euro e 15 mila euro in contanti, suddivisi in mazzette. Per gli inquirente erano i proventi dell'attività estorsiva attraverso la quale De Vita finanziava la sua latitanza. Alla cattura del boss si pervenne seguendo i suoi familiari e dopo che negli ultimi anni i tre figli (Vito, Vincenzo e Gaspare) erano stati arrestati, in vari momenti, per fatti di droga ed estorsione.