Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
17/11/2015 06:25:00

Mafia. Cominciato il processo "Witness". Condannati cognato e sorella di Messina Denaro

 Il caso del boss ergastolano Francesco De Vita, che dopo aver deciso di collaborare con la giustizia si è pentito di tale scelta, è venuto fuori in aula, in Tribunale, a Marsala, nella prima udienza del processo a tre dei quattro arrestati nell’operazione antimafia “The Witness”, scattata all’alba dello scorso 9 marzo. Nel corso delle richieste di prova (testimonianze, intercettazioni, documenti), il pm della Dda Carlo Marzella ha, infatti, chiesto ascoltare anche alcuni “imputati di reato connesso”: due pentiti, Briguglio e Pulizzi, da sentire “in trasferta”, e Francesco De Vita “che prima – ha detto il pm – aveva chiesto di essere ammesso a programma di protezione e poi ha revocato tale richiesta”. Intanto, alla prossima udienza, il 9 dicembre, si inizierà con la deposizione di un investigatore, Marco Calzolari, che riferirà su intercettazioni e indagini. Imputati, per associazione mafiosa, sono Antonino Bonafede, di 80 anni, pastore e vecchio “uomo d’onore”, Martino Pipitone, di 65, ex impiegato di banca in pensione, entrambi in passato già arrestati per mafia, e il 54enne pastore incensurato Vincenzo Giappone. Dei tre, solo Pipitone - accusato anche di intestazione fittizia di una società ad altra persona “per evitare eventuale confisca da parte dello Stato” - è tornato in libertà. Per la Dda, Antonino Bonafede avrebbe “ereditato” il bastone del comando in seno alla famiglia mafiosa marsalese dal figlio Natale, in carcere dal gennaio 2003 con una condanna definitiva all’ergastolo. Secondo l’accusa, il nuovo anziano “reggente”, al quale in gennaio sono stati confiscati beni per oltre 4 milioni di euro, assieme a Giappone “provvedeva alla raccolta del denaro provento di attività illecite, poi conferito al “mandamento mafioso” di Mazara e ai familiari di affiliati detenuti, come Amato Giacomo, uomo d’onore marsalese condannato all’ergastolo”. Giappone sarebbe stato il cassiere della “famiglia” e il “primo collaboratore” di Bonafede senior. Martino Pipitone è definito “esponente di rilievo della consorteria mafiosa marsalese” e avrebbe esercitato la sua “sfera d’influenza nel centro storico”. E con Sebastiano Angileri deve rispondere anche di intestazione fittizia di una società operante nel commercio all’ingrosso di materiale ferroso (società intestata alla moglie di Angileri). I militari, poi, sono riusciti a monitorare “il passaggio del denaro tra gli affiliati, che era solitamente contenuto in buste di carta e indicato dagli stessi con l’appellativo di malloppo”. La famiglia mafiosa, inoltre, al fine di mantenere il controllo del territorio, si sarebbe interessata al recupero di refurtiva sottratta a persone vicine all’organizzazione criminale, a dirimere controversie tra agricoltori e pastori e a contrastare l’apertura di nuove attività commerciali che avrebbero potuto fare concorrenza a quelle di soggetti mafiosi o vicini a Cosa Nostra. Dalle indagini, infine, è emersa l’appartenenza alla famiglia mafiosa Baldassare Marino, assassinato a colpi di arma da fuoco, nell’entroterra di Strasatti, il 31 agosto 2013. Coinvolti, come detto, nell’indagine della Dda anche il 48enne fabbro marsalese Sebastiano Angileri e la moglie Vita Maria Accardi, il primo accusato favoreggiamento e intestazione fittizia di beni, la seconda solo di intestazione fittizia. Angileri fu arrestato e poi scarcerato, la moglie, invece, soltanto denunciata. Entrambi hanno chiesto di essere giudicati con rito abbreviato e il gup di Palermo Nicola Aiello li ha condannati a due anni (Angileri) e a un anno e 4 mesi (Accardi) di reclusione. Escludendo, però, l’aggravante di attività in favore della mafia. Si sarebbe trattato, dunque, di favoreggiamento personale semplice. Da evidenziare, infine, che unica parte civile nel processo a Bonafede, Pipitone e Giappone è l’associazione antiracket “Paolo Borsellino Onlus”, rappresentata dall’avvocato Peppe Gandolfo. Assente il Comune di Marsala.

Cognato e sorella Matteo Messina Denaro condannati
Il Tribunale di Marsala (presidente Sergio Gulotta) ha condannato, per intestazione fittizia di beni, Bice Maria Messina Denaro, sorella di Matteo Messina Denaro, e il marito Gaspare Como. A quest’ultimo i giudici hanno inflitto tre anni e mezzo di carcere, mentre Bice Maria Messina Denaro è stata condanna a un anno e mezzo. Condannati anche Valentina Como, sorella di Gaspare, e Gianvito Paladino. Alla prima sono stati inflitti un anno e 8 mesi, al secondo un anno e mezzo. Pena sospesa per Bice Maria Messina Denaro, Valentina Como e Gianvito Paladino. Assoluzione e prescrizione per alcuni capi d’imputazione. Il Tribunale ha, inoltre, disposto la confisca di alcuni beni: un immobile, rimanenze di un negozio di abbigliamento e un’auto Wolksvagen Tuareg. Secondo l’accusa, allo scopo di evitare la possibile confisca da parte dello Stato, i coniugi Como-Messina Denaro avrebbero intestato fittiziamente alle sorelle Como una ditta che si occupava della vendita di capi d’abbigliamento e a Paladino la Wolksvagen Tuareg, mezzo sequestrato nel 2012. L’inchiesta è stata svolta dalla Direzione investigativa antimafia di Trapani. Al termine della sua requisitoria, il pubblico ministero Antonella Trainito aveva chiesto la condanna di Gaspare Como a 4 anni e mezzo di carcere, mentre per la moglie aveva invocato 3 anni e mezzo. Tre anni e 4 mesi, poi, erano stati chiesti per Valentina Como, sorella di Gaspare, e 3 anni per Gianvito Paladino. Non doversi procedere per prescrizione, invece, per un’altra sorella di Gaspare Como, Giovanna Como. A difendere gli imputati sono gli avvocati Claudio Gallina Montana, Celestino Cardinale, Giuseppe Ferro e Vincenzo Salvo.