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04/12/2015 06:55:00

Mafia. Sequestrati beni per 13 milioni ai "postini" di Matteo Messina Denaro

Sequestro milionario per i fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro. Beni, aziende e conti correnti per un valore complessivo di 13 milioni di euro sono stati posti sotto sequestro ai “postini” del super latitante di Castelvetrano. Il sequestro è stato operato nei confronti di Vito Gondola, di Mazara del Vallo classe 1938 allevatore pluripregiudicato, reggente del mandamento mafioso di Mazara del Vallo; Michele Gucciardi, di Salemi classe 1953 , imprenditore agricolo pregiudicato, reggente della Famiglia mafiosa di Salemi, Giovanni Domenico Scimonelli, classe 1967, imprenditore pregiudicato, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Partanna, Pietro Giambalvo, classe 1938 allevatore pregiudicato, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Santa Ninfa.
Il sequestro è stato operato dalla Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza che hanno dato esecuzione ad un Decreto di Sequestro preventivo emesso dal G.I.P. presso il Tribunale di Palermo, D.ssa M. Pino; su richiesta del procuratore aggiunto Teresa Principato ed i Sostituti Procuratori Paolo Guido e Carlo Marzella della Procura della Repubblica di Palermo diretta dal Procuratore Capo Franco Lo Voi.

I quattro destinatari del sequestro sono stati arrestati lo scorso 3 agosto nell’ambito dell'operazione antimafia “Ermes” per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso e favoreggiamento aggravato dalla modalità mafiosa per aver agevolato la latitanza di Matteo Mssina Denaro.

Il Giudice ha emesso i provvedimenti ablativi condividendo le risultanze delle approfondite indagini di natura patrimoniale condotte da investigatori del Servizio Centrale Operativo e delle Squadre Mobili di Palermo e Trapani, del G.I.C.O. della Guardia di Finanza di Palermo e del R.O.S. Reparto Anticrimine dei Carabinieri di Palermo.

Il sequestro riguarda beni mobili, immobili ed aziende, site in Mazara del Vallo, Castelvetrano, Salemi, Partanna, Santa Ninfa e Trapani per un valore totale stimato in circa 13 milioni di euro. Si tratta di 8 aziende ed una quota societaria (supermercati, aziende agricole e d’allevamento ovino). 68 immobili (27 fabbricati e 41 terreni), 2 autovetture, 36 rapporti finanziari e bancari.

Le indagini patrimoniali hanno evidenziato il palese disvalore tra i redditi dichiarati dagli indagati ed i beni posseduti, per cui il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, si è reso urgente e necessario anche al fine di scongiurare eventuali alienazioni a prestanomi o a terzi.

Nelle ultime indagini, infatti, è stato scoperto che sia il Vito Gondola che Scimonelli, dopo essere stati tratti in arresto, avrebbero dato mandato ai loro congiunti di vendere parte dei propri beni a terzi proprio per evitare eventuali provvedimenti di sequestro.
L'operazione Ermes in cui furono arrestati i quattro “uomini d'onore” ha permesso di scoprire la rete di veicolazione dei pizzini diretti al latitante Messina Denaro o originati dallo stesso e destinati alle diverse famiglie mafiose della provincia di Trapani. Rete che si strutturava grazie a riservatissime comunicazioni tra i quattro che, al fine di eludere le investigazioni dirette alle loro persone, utilizzavano alcuni insospettabili soggetti per fissare discreti appuntamenti in isolatissimi luoghi delle campagne tra Salemi, Mazara del Vallo, Santa Ninfa e Partanna.
Il perno, il vertice di tutta l'organizzazione, era il vecchio boss Vito Gondola, detto Vito Coffa. Sono diverse le intercettazioni da cui emerge che all'anziano mazarese era stato attribuito il gravoso compito di gestire i tempi ed i modi di consegna e distribuzione della “corrispondenza” di Messina Denaro.

Lo stesso capomafia mazarese aveva dovuto individuare dei “tramiti” (così denominava i soggetti di fiducia lo stesso latitante in scritti in precedenza sequestrati), di provata affidabilità per poter interloquire in maniera riservata con altri capimafia, quali Michele Gucciardi, Pietro Giambalvo e Giovanni Domenico Scimonelli.

La trasmissione dei pizzini avveniva con cadenza trimestrale e con modalità dettate dallo stesso latitante che, evidentemente al fine di scongiurare ogni possibile tentativo da parte degli investigatori di risalire alla filiera di trasmissione dei pizzini, aveva deciso di evitare più frequenti contatti con i suoi accoliti.

Lo scambio dei messaggi avveniva in aperta campagna, in occasione degli incontri tra gli indagati che, pure in quei casi, usavano la massima accortezza nel linguaggio per riferirsi al latitante o alle dinamiche criminali sottese alle direttive da questi impartite mediante gli stessi riservati messaggi.