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29/01/2016 06:20:00

Il caso Michele Licata. Ora vuole pagare le tasse evase, ma con i beni sequestrati

 E’ approdato all’udienza preliminare il procedimento penale scaturito dall’indagine di Procura e sezione di pg della Guardia di Finanza che il 21 aprile 2015 è sfociato nel primo sequestro (“preventivo e d’urgenza”) dell’impero economico di Michele Licata. Le richieste di rinvio a giudizio, oltre che per l’imprenditore a lungo leader nel settore ristorazione alberghiero, sono state avanzate anche per le figlie Clara Maria e Valentina, nonché per imprenditori, che hanno già confessato, e ditte accusati di false fatturazioni, per oltre 20 milioni di euro, verso le società del “gruppo Licata”. Le accuse a vario titolo contestate sono evasione fiscale, truffa allo Stato e false fatturazioni per “operazioni inesistenti”. A difendere i Licata sono gli avvocati Carlo Ferracane, Salvatore Pino e Paolo Paladino, che al gup Francesco Parrinello hanno chiesto tre mesi di tempo per consentire, tramite l’amministratore giudiziario Antonio Fresina, il pagamento all’Agenzia delle Entrate delle tasse (Iva) evase nel corso degli anni. Per questo, l’amministratore giudiziario ha già chiesto alla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Trapani (che su richiesta della Procura di Marsala, lo scorso novembre ha disposto il sequestro di beni e liquidità per 127 milioni di euro) di sbloccare le somme necessarie. Il giudice ha accolto la richiesta di “differimento”, rinviando al 5 maggio l’udienza per decidere sulle richieste di rinvio a giudizio. Alla fine dello scorso ottobre, intanto, l’Agenzia delle Entrate, proprio grazie all’indagine di Procura e sezione di pg della Guardia di finanza, ha recuperato quattro milioni di euro dalle aziende del gruppo Licata. E’ stata la somma più consistente che lo Stato è riuscito a recuperare in Sicilia a seguito di un’inchiesta. E tra le più rilevanti in Italia. Il procedimento approdato, adesso, all’udienza preliminare è quello relativo al sequestro di somme di denaro, quote societarie, beni mobili e immobili, per un valore di circa 13 milioni di euro, nonché quote sociali e beni mobili e immobili di quattro complessi aziendali per un valore stimato in circa 90 milioni di euro, effettuato la scorsa primavera. Ovvero, il sequestro riguardante il ristorante-sala ricevimenti “Delfino”, il “Delfino Beach”, “La Volpara” e il “Baglio Basile”. E “per equivalente” anche quote delle relative società, nonché de “L’arte bianca” e “Sweet Tempation” (panificazione) e “Rakalia” (assistenza residenziale). In tutto, sono tredici le persone per le quali si chiede il giudizio. Per illecito amministrativo, sono poi indagate anche due società di capitali. Secondo l’accusa, tra il 2006 e il 2013, le aziende del gruppo Licata avrebbe evaso imposte per circa otto milioni di euro, mentre i finanziamenti pubblici “illecitamente” ottenuti sono oltre 4 milioni di euro. Le false fatturazioni sono state contestate a Giuseppe Sciacca, costruttore, Maria Rosa Castiglione, commerciante all’ingrosso di prodotti alimentari, Domenico Ferro (“Security”), l’Ispe di Giacomo Bongiorno, la “Master Impianti” di Carlo Palmeri, Vito Salvatore Fiocca (edilizia e movimento terra), la “Ambienti Hotel” di Gaspare Messina, la “Centro Dorelan” di Leonarda Cammareri (commercio tessuti), la “Si.Service” (opere di ingegneria civile) e la “Pi.Ca.M.” di Antonino Nizza (trasformazione ferro e acciaio). A coordinare l’inchiesta delle Fiamme Gialle sono stati il procuratore Alberto Di Pisa e il sostituto Nicola Scalabrini. A quest’ultimo, poi trasferitosi in una Procura del nord Italia, è subentrata, nella seconda fase delle indagini, quella sfociata in ulteriori ipotesi di reato (ricettazione, riciclaggio e autoriciclaggio) a carico di altri familiari di Michele Licata, il sostituto Antonella Trainito.