Il "lungo, complesso e approfondito iter processuale ha consentito di accertare che l'omicidio del giornalista Mauro De Mauro fu deciso ed eseguito da uomini di Cosa nostra" e che la "relativa causale è individuabile nelle informazioni riservate di cui la vittima era entrata in possesso in relazione alla sua attività professionale, verosimilmente, anche se non certamente, riconducibili, secondo le risultanze del processo di merito, al coinvolgimento di esponenti mafiosi nella morte di Enrico Mattei, più che nella vicenda relativa al tentativo di golpe cosiddetto Borghese".
Lo scrive la prima sezione penale della Cassazione, nelle motivazioni della sentenza, pronunciata il 4 giugno scorso, con cui rigettò il ricorso presentato dal pg di Palermo, dai familiari di De Mauro e dall'Ordine dei giornalisti della Sicilia, contro il verdetto di assoluzione emesso nel 2014 dalla Corte d'assise d'appello del capoluogo siciliano nei confronti di Totò Riina in relazione all'omicidio del cronista del giornale "l'Ora", sequestrato il 16 settembre 1970 e mai più ritrovato.
Quanto all'assoluzione di Riina, la Suprema Corte evidenzia quindi che "gli elementi di prova raccolti sia di natura storico-dichiarativa che di natura logico-indiziaria, che sono stati puntualmente e congruamente analizzati e valutati, nella loro valenza singola e complessiva, da entrambe le sentenze di merito (anche in primo grado, nel 2011, Riina era stato assolto da tale accusa, ndr), all'esito di una disamina scrupolosa che costituisce il risultato congiunto delle ampie argomentazioni spese dalle Corti territoriali di primo e di secondo grado, non hanno tuttavia - sottolineano i giudici di 'Palazzaccio' - permesso di accertare un ruolo diretto o indiretto dell'imputato nel delitto", così che la "conseguente conclusione assolutoria (per non aver commesso il fatto) risulta coerente a una corretta lettura delle emergenze processuali ed è perciò incensurabile in sede di legittimità".
Per la Cassazione, sono "inaffidabili" le dichiarazioni rese in appello dal collaboratore Francesco Di Carlo, che aveva cambiato versione rispetto a quanto riferito in precedenza, raccontando "l'episodio inedito" e di "dirompente novità" - nonostante fosse stato in precedenza più volte interrogato su ogni aspetto della vicenda De Mauro - di essere stato presente, dietro una porta, all'incontro nel quale Riina decise di far uccidere De Mauro dopo che Stefano Bontate gli raccontò che lui stesso e il boss Di Cristina erano andati a Roma e avevano ricevuto da Maletti e dal generale Miceli l'ordine "di impedire che fossero divulgate" le informazioni in possesso del giornalista sull'imminente golpe. In proposito, i supremi giudici ricordano che la Corte di Appello aveva messo in relazione questo "aggiustamento" delle dichiarazioni di Di Carlo, a un "possibile interesse di natura economica del dichiarante, legato alla stesura di un libro sulla vicenda".
Per la Cassazione, non è assolutamente provata l'esistenza di un "triumvirato" preposto al governo di Cosa nostra, del quale nel 1970 avrebbero fatto parte Bontate, Badalamenti e Riina, dal momento che la maggior parte dei collaboratori (Buscetta, Mutolo, Calderone, Grado e Mannoia) hanno attribuito al solo Bontate, e non al Riina - che all'epoca era un personaggio secondario nell'organigramma mafioso - l'organizzazione dell'omicidio di De Mauro che sarebbe stato eseguito da uomini di fiducia del Bontate: Emanuele D'Agostino, Girolamo Teresi e Antonino Grado. La maggior parte dei collaboratori ha indicato nella "causale" legata alla morte del presidente dell'Eni Mattei la ragione dell'omicidio di De Mauro.
La versione di Di Carlo non ha trovato alcun riscontro. Sulla morte del cronista de L'Ora, i fatti restano non "univocamente accertati", per la natura "quantomeno approssimativa, se non addirittura contraddittoria" delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, "ascrivibile alla natura remota dei fatti riferiti e dei relativi ricordi, frutto per lo più di notizie apprese de relato e di convincimenti personali ricavati, anche in buona fede, da deduzioni o rielaborazioni di elementi di conoscenza risalenti nel tempo", conclude la Cassazione mettendo - in sostanza, per mancanza di prove - una pietra sopra l'inchiesta riaperta dall'ex pm Antonio Ingroia a carico di Riina.