Il primo verbale risale a più di sette anni fa, 23 settembre 2008. Pietro Riggio, appena riarrestato per mafia ed estorsioni, decide di collaborare con i magistrati e dice che quando voleva andare a chiedere il pizzoal fratello di Antonello Montante (di cui non ricorda il nome), il boss Salvatore Dario Di Francesco, «si mostrò rammaricato, poiché i Montante erano vicino alla famiglia (mafiosa, ndr) di Serradifalco, nel senso che si prestavano ad assumere persone indicate da quella famiglia e non erano pertanto da “vessare”, quanto piuttosto da riguardare».L’ultimo è dell’anno scorso, 28 marzo 2015, sottoscritto dallo stesso Di Francesco, divenuto pure lui «pentito». Durante un periodo di libertà, racconta, fu avvicinato dal capo della mafia a Serradifalco, Vincenzo Arnone, già amico di gioventù e testimone di nozze di Montante: «Per stuzzicarlo gli evidenziai come il suo compare fosse ormai lanciato nel mondo della legalità. L’Arnone mi rispose con un sorriso sarcastico»; ne scaturì una confidenza: anni prima lo stesso Montante gli avrebbe chiesto di avvicinare proprio Di Francesco, allo scopo di fargli accusare un’altra persona.
La protezioneIl nome della presunta vittima, nel verbale, è nascosto da un omissis, ma la sostanza è che Montante — attuale presidente di Confindustria Sicilia, nonché delegato nazionale per la Legalità — avrebbe tentato di ordire un complotto contro un avversario; che ora è ciò che lui stesso denuncia nei propri confronti.
È l’intreccio contenuto nell’inchiesta su Montante per concorso esterno in associazione mafiosa, condotta dalla Procura di Caltanissetta che tre settimane fa ha ordinato una raffica di perquisizioni e giovedì affronterà il tribunale del Riesame, confrontandosi con gli avvocati difensori Nino Caleca, Marcello Montalbano e Giuseppe Panepinto. I quali, a fronte della mole di fascicoli depositati dall’accusa (costellati di omissis) hanno rovesciato sui giudici decine di altri documenti tesi a dimostrare l’innocenza del loro assistito. E la congiura ai suoi danni.
Di Francesco rivela di aver saputo da Arnone che Montante gli aveva chiesto appoggi per l’elezione a presidente dei Giovani industriali nisseni. Quanto alla «protezione» di cui avrebbe goduto aggiunge: «Sino a quando Vincenzo Arnone è stato presente in paese e ha gestito la famiglia mafiosa di Serradifalco, Montante non ha mai avuto problemi di qualsiasi genere, così come non li ha avuti allorché sono stato io ad avere la carica di reggente della famiglia».
Ciò sarebbe avvenuto in cambio di assunzioni pilotate e lavori affidati a imprese riferibili ai boss di cui parla, fra gli altri, l’imprenditore-pregiudicato Aldo Riggi: Montante gli chiese di abbandonare una fornitura perché non poteva dire di no ad Arnone «in qualità di amicizia». Il pentito della «vecchia guardia» nissena Carmelo Barbieri riferisce di una non meglio precisata «amicizia e vicinanza» della famiglia Montante, mentre ancora Di Francesco ha raccontato: «Antonello, che so essere molto amico di Massimo Romano il quale si spese molto per farlo eleggere presidente di Confindustria, si è rivolto a Vincenzo Arnone affinché quest’ultimo trovasse un locale dove il Romano potesse aprire il supermercato».
Da ultimo, il 26 settembre scorso, proprio Romano ha rivelato ai pm che «tra novembre e dicembre 2014» Montante gli fece una strana richiesta: «Cambiare in tagli più piccoli una somma che si aggirava tra i 100.000 e i 300.000 euro, di cui egli disponeva in banconote da 500 euro. Gli risposi che non potevo farlo perché gli incassi dei miei supermercati vengono normalmente versati nelle Casse continue... Ricordo di avergli detto, scherzando, di portarli a Malta o in Svizzera, e lo stesso mi rispose che doveva cambiarli qui». Da questo e altri indizi tratti da due vecchi procedimenti archiviati a carico di Montante, gli inquirenti ipotizzano la costituzione di «fondi neri».
Tutto ciò per Montante è solo frutto di una trama delegittimante ai suoi danni, dovuta alla svolta impressa a Confindustria Sicilia sul fronte della legalità e della lotta alla mafia. Sostenuta fino a poco fa da colleghi come Marco Venturi, presidente di Confindustria Centro-Sicilia che fino all’estate scorsa lo difendeva e ora lo attacca; col risultato di essere stato querelato dall’ex amico.
Tra le carte sottoposte da Montante ai giudici del Riesame c’è un dossier contro di lui (e Venturi, all’epoca suo alleato) consegnato — secondo una denuncia del 2015 — a un certo Salvatore Alaimo da due personaggi «legati a Pietro Di Vincenzo», già presidente dei Costruttori siciliani e di Confindustria-Caltanissetta, condannato nel 2014 per estorsione: Tullio Giarratano e Umberto Cortese, rispettivamente ex direttore di Confindustria-Caltanissetta ed ex presidente dell’Asi. Alaimo, anziché collaborare con loro, si sarebbe rivolto a Montante che lo indirizzò alla Direzione investigativa antimafia, dove gli fu proposto di andare avanti nei contatti registrando i colloqui; ora gli avvocati di Montante chiedono di poter leggere le trascrizioni di quelle intercettazioni.
Ancora, in un anonimo del 2014 si fa riferimento a «un cantante di Serradifalco» da ricompensare per le sue dichiarazioni contro Montante, che potrebbe essere Di Francesco, già collaboratore di Cortese. Inoltre il leader siciliano di Confindustria ricorda che fu lui stesso a denunciare e far arrestare «il coetaneo Vincenzo Arnone che alla fine degli anni Novanta, dopo una giovinezza vissuta nella normalità, scopriva di possedere la vena di uomo d’onore come suo nonno»; ed era stato capace, aggiungeva Montante, «di trascinare nell’organizzazione di Cosa nostra persone che nulla avevano a che spartire con la criminalità come Dario Di Francesco, al quale erano state consegnate le redini della famiglia mafiosa locale».Così si ritorna all’interrogativo: vera vicinanza con i boss della sua zona o vendetta per la decisione di contrastarli? È la domanda chiave dell’indagine che scuote e inquieta l’antimafia, in Sicilia e non solo.
Giovanni Bianconi - Il Corriere della Sera