Il sistema Licata si basava su un metodo che a molti è sembrato raffazzonato, ma che negli anni - secondo quanto emerso dalle inchieste della Procura di Marsala - ha fruttato parecchi soldi al re delle strutture ricettive a Marsala. Un sistema basato sulle false fatture, che servivano per accedere a finanziamenti europei, che servivano anche per evadere l’Iva. Tutto attraverso imprenditori compiacenti che staccavano fatture gonfiate o per operazioni inesistenti. Un sistema scoperchiato dalla sezione Pg della Guardia di Finanza e dalla Procura di Marsala che hanno messo sotto sequestro l’impero di Michele Licata, un sequestro da 127 milioni di euro, il più alto in Italia per reati estranesi alla mafia.
Le cose per Licata ora si mettono ancora peggio, perchè sono arrivate le prime condanne agli imprenditori del suo giro per le fatture false. Sono le condanne subite, con rito abbreviato, da sei imprenditori accusati di avere emesso quelle “false fatture” per “operazioni inesistenti” che a Licata hanno consentito di evadere il pagamento di tasse per milioni e milioni di euro. Il reato è contestato in “concorso” con l’ex principale imprenditore locale del settore ristorazione-alberghiero. Le condanne sono state inflitte dal gup Francesco Parrinello, che ha sentenziato un anno e 4 mesi di reclusione per Filippo Giacalone, 40 anni, rappresentante legale della “SiService” (opere di ingegneria civile), Antonino Nizza, di 59, socio amministratore della “Pi.Ca.M.” (trasformazione ferro e acciaio), e Domenico Ferro, di 57, titolare della ditta “Security”. Dieci mesi, invece, sono stati inflitti a Carlo Mineo Buccellato, 38 anni, trapanese, titolare “di fatto” della ditta “Castiglione Maria Rosa” (prodotti alimentari), e ai mazaresi Gaspare Messina, di 58, titolare di “Ambienti Hotel”, e Leonarda Cammareri, di 51, titolare del Centro “Dorelan” (tessuti). Le pene inflitte non sono state più pesanti perché è stato scelto il rito abbreviato. Queste condanne mettono Michele Licata praticamente con le spalle al muro. Anche perché alcuni degli imprenditori “complici” hanno ammesso le loro responsabilità.
Il sistema Licata si basava anche su imprenditori che avevano problemi economici, e a chi permetteva il gioco della fattura fasulla veniva dato, da quello che è emerso nell’inchiesta, una ricompensa del 2-3% sull’importo fatturato. Fatture che servivano, secondo quanto emerge dalle indagini, non solo per evadere le tasse, non solo per allegarle alle richieste di contributi pubblici da parte delle società del Gruppo Licata, ma anche per avere del denaro contante. Semplice, venivano emessi degli assegni per il pagamento delle fatture false, assegni che venivano riscossi dal fornitore che poi girava il contante allo stesso Licata. C’erano le imprese che fatturavano centinaia di migliaia di euro a Licata, ma dichiaravano volumi d’affari pari a zero. C’erano anche quelle fatture emesse senza che il titolare ne sapesse nulla.
Adesso, si attende il 5 maggio, quando davanti al gup dovranno comparire Michele Licata e le figlie Clara Maria e Valentina. Lo scorso 28 gennaio, i loro legali (avvocati Carlo Ferracane, Salvatore Pino e Paolo Paladino) hanno chiesto e ottenuto una sospensione di tre mesi per consentire al gruppo imprenditoriale di saldare, tramite l’amministratore giudiziario Antonio Fresina, l’enorme debito accumulato, negli anni, con l’Agenzia delle Entrate a causa di tasse non pagate (Iva). Intanto, grazie all’indagine della sezione di pg della Guardia di finanza della Procura, coordinata dal pm Antonella Trainito (e prima da Nicola Scalabrini), lo Stato ha già recuperato 4 milioni di euro. La somma più consistente in Sicilia e tra le più rilevanti in Italia. Il procedimento approdato all’udienza preliminare è quello relativo all’indagine sfociata nel sequestro (“preventivo e d’urgenza”) di beni mobili e immobili del 21 aprile 2015. A fine novembre scattò, poi, quello disposto, sempre su richiesta della Procura di Marsala, dalla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Trapani: un sequestro di beni (ristorante-sala ricevimenti “Delfino”, il “Delfino Beach”, “La Volpara” e il “Baglio Basile”), polizze d’investimento e liquidità per complessivi 127 milioni di euro. Secondo l’accusa, tra il 2006 e il 2013, le aziende del gruppo Licata avrebbe evaso imposte per circa otto milioni di euro, mentre i finanziamenti pubblici “illecitamente” ottenuti sono oltre 4 milioni di euro. Le false fatturazioni sono state contestate anche a Giuseppe Sciacca, costruttore, all’Ispe di Giacomo Bongiorno e a Vito Salvatore Fiocca (edilizia e movimento terra).
Michele Licata di recente è stato anche rinviato a giudizio per i reati ambientali legati al lido abusivo a Torrazza. Un lido che, appunto, doveva essere costruito con materiali scomponibili ma che in realtà era vatto di cemento e pilastri portanti che non rispettavano proprio la caratteristica di “stagionalità”. Per questo è arrivato il sequestro e il successivo ordine di demolizione. Con Licata sono imputati anche Vito Salvatore Fiocca, camionista, e Pietro Biondo, trattorista.
La vicenda del lido è stata la prima a far esplodere il caso Torrazza. Un'area che ricade in una zona protetta, quella dei Margi, che Licata riuscì a comprare, lotto dopo lotto, con l'intenzione di farci un grande centro turistico con tanto di campo da golf e guest house e albergo. Il tutto però aveva le false spoglie di un oleificio. Per questo, nel 2013, ci fu il sequestro dell'intera area da 18 ettari con l'accusa per abusivismo edilizio e lottizzazione abusiva. Il lido non era altro che il primo tassello che l'imprenditore marsalese voleva mettere nel suo puzzle della operazione del grande centro turistico.
Le inchieste degli ultimi mesi, poi, hanno contribuito ad evitare un altro tentativo di speculazione edilizia a Petrosino che stava mettendo in atto il gruppo Licata. Si tratta dei progetti “Dammusi”.
Ma Licata non si occupava solo di ristorazione e attività ricettive. Aveva iniziato a mettere le mani anche nel business dell’accoglienza ai migranti. Un sistema, anche quello, che sta tenendo sott’occhio la magistratura.