La condanna a 10 anni di carcere è stata invocata dal pm della Dda Carlo Marzella per ciascuno dei tre imputati del processo, davanti il Tribunale di Marsala, scaturito dall’operazione antimafia dei carabinieri “The Witness” (9 marzo 2015). Gli imputati per i quali è stata chiesta la condanna per associazione mafiosa sono Antonino Bonafede, di 80 anni, pastore e vecchio “uomo d’onore”, Martino Pipitone, di 66, ex impiegato di banca, entrambi in passato già arrestati per mafia, e Vincenzo Giappone, 54 anni, pastore, incensurato. Secondo l’accusa, Antonino Bonafede avrebbe preso il posto del figlio, Natale Bonafede, in carcere dal gennaio 2003 con una condanna definitiva all’ergastolo, al vertice della locale famiglia mafiosa. All’anziano nuovo presunto “reggente”, nel gennaio 2015 sono stati confiscati beni per oltre 4 milioni di euro. Per la Dda, i tre personaggi alla sbarra avrebbero cercato di riorganizzare, dopo i numerosi arresti degli ultimi anni, la locale cosca mafiosa. Nelle battute finali del processo, accogliendo la richiesta del pm Marzella, il Tribunale ha deciso di acquisire al dibattimento i verbali con le dichiarazioni rese dal boss ergastolano marsalese Francesco De Vita dopo il suo arresto. De Vita, infatti, aveva deciso di iniziare a collaborare con la giustizia. Poi, però, la reazione di alcuni familiari, lo convinse a fare dietro front. Quelle iniziali dichiarazioni, però, hanno sottolineato gli inquirenti, diedero spunto per le indagini sfociate nell’operazione “The Witness”. De Vita doveva essere ascoltato in aula (ammesso che avesse voluto parlare) lo scorso 4 gennaio, ma fu tradotto sullo cellulare con cui arrivò uno degli imputati: Vincenzo Giappone. Il pm decise, perciò, di rinunciare all’interrogatorio. Francesco De Vita è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giovanni Zichittella (15 giugno 1992) nell’ambito del processo “Patti + 40”. Dei tre, solo Pipitone - accusato anche di intestazione fittizia di una società ad altra persona “per evitare eventuale confisca da parte dello Stato” - è tornato in libertà. Secondo l’accusa, Antonino Bonafede, insieme a Giappone “provvedeva alla raccolta del denaro provento di attività illecite, poi conferito al “mandamento mafioso” di Mazara e ai familiari di affiliati detenuti, come Amato Giacomo, uomo d’onore marsalese condannato all’ergastolo”. Giappone sarebbe stato il cassiere della “famiglia” e il “primo collaboratore” di Bonafede senior. Martino Pipitone è definito “esponente di rilievo della consorteria mafiosa marsalese” e avrebbe esercitato la sua “sfera d’influenza nel centro storico”. I militari, poi, sono riusciti a monitorare “il passaggio del denaro tra gli affiliati, che era solitamente contenuto in buste di carta e indicato dagli stessi con l’appellativo di malloppo”. La famiglia mafiosa, inoltre, al fine di mantenere il controllo del territorio, si sarebbe interessata al recupero di refurtiva sottratta a persone vicine all’organizzazione criminale, a dirimere controversie tra agricoltori e pastori e a contrastare l’apertura di nuove attività commerciali che avrebbero potuto fare concorrenza a quelle di soggetti mafiosi o vicini a Cosa Nostra. Dalle indagini, infine, è emersa l’appartenenza alla famiglia mafiosa Baldassare Marino, assassinato a colpi di arma da fuoco, nell’entroterra di Strasatti, il 31 agosto 2013. Coinvolti nell’indagine della Dda anche il 48enne fabbro marsalese Sebastiano Angileri e la moglie Vita Maria Accardi, il primo accusato favoreggiamento e intestazione fittizia di beni, la seconda solo di intestazione fittizia. Angileri fu arrestato e poi scarcerato, la moglie, invece, soltanto denunciata. Entrambi hanno chiesto di essere giudicati con rito abbreviato e il gup di Palermo Nicola Aiello li ha condannati a due anni (Angileri) e a un anno e 4 mesi (Accardi) di reclusione. Escludendo, però, l’aggravante di attività in favore della mafia. Si sarebbe trattato, dunque, di favoreggiamento personale semplice.