Una legislazione che fissi criteri oggettivi per l’erogazione di denaro pubblico alle associazioni antimafia, spesso assegnata con criteri clientelari. La chiede Umberto Santino, del Centro di Documentazione Impastato. Santino è intervenuto con un suo contributo su La Repubblica per commentare lo stato di salute dell'antimafia, e le proposte di un nuovo manifesto per rilanciare il movimento. Serve buon senso, per Santino, e bisogna cominciare da gesti concreti, come quello di evitare che l'erogazione di contributi alle associazioni antimafia e antiracket diventi occasione di clientelismo. Più in generale, scrive Santino:
L’antimafia si è formata soprattutto come predicazione della legalità, sostegno alla magistratura più impegnata, scorta civica ai magistrati più esposti, gregarismo rispetto a protagonisti monopolizzatori dell’antimafia che conta: qualche familiare di vittima illustre, qualche leader di tipo carismatico, capace di organizzare grandi eventi.
Dopo il tramonto delle grandi narrazioni, delle ideologie più o meno forti e delle forme-partito, la società civile è emersa come la sede naturale dell’associazionismo alternativo e dell’antimafia che si autodefinisce sociale, ma spesso è solo capace di elaborare stereotipi e di praticare rituali più o meno partecipati.
La società civile riproduce la società nel suo complesso, riflette la crisi delle democrazie, afflitte da leaderismi e fidelizzazioni.
I Berlusconi e i Renzi non ci sono solo in politica, proliferano anche altrove.
Da questo punto di vista quel che è accaduto più volte in Libera, con l’emarginazioni di voci che mostravano una qualche autonomia, costituisce l’esempio più significativo. Com’è pure significativo il ruolo dei media nella creazione degli “eroi di carta”, delle reincarnazioni del Verbo, dei santoni alla ricerca di chierichetti.
In una società a illegalità diffusa e strutturale la magistratura ha assunto un ruolo di superpotere e anche qui non mancano protagonisti, giustizieri, salvatori della patria. Quel che è accaduto a Telejato può darsi che abbia il sapore di rivalsa, ma c’è un modo di fare giornalismo che pende troppo verso il protagonismo più o meno accentuato. Più che “manifesti” stilati da alcuni big dell’antimafia, occorre una certa dose di buon senso e una massiccia dose di umiltà.
Continua intato la polemica tra Giovanni Fiandaca e il Pm Antonio Di Matteo.
Interpellato dal Foglio, il professore precisa di non avere “nulla di personale” nei confronti di Di Matteo, ma ammette di non riuscire a comprendere le ragioni di questo “giudizio di inopportunità”: “Se lui intende dire che i relatori dei convegni dei magistrati devono essere scelti sulla base, oltre che della loro competenza sull’argomento, di una preventiva verifica del consenso che loro prestano ai processi in corso, il dott. Di Matteo esprime un orientamento che è assolutamente privo di giustificazione tecnica, culturale, e anche sindacabile dal punto di vista del rispetto di alcuni princìpi costituzionali”.
Fiandaca si dice preoccupato per questa “sorta di monopolio nel modo di interpretare i fenomeni criminali e nel fornire risposte ai grandi problemi che riguardano il nostro paese”. Ancora: “Per il semplice fatto di essere ormai diventati dei simboli, i magistrati non possono assurgere a criminologi e sociologi che fanno affermazioni di portata generalissima”. “Ciò che mi sorprende – continua Fiandaca – è che la cosiddetta antimafia, quella progressista e di sinistra (a parole), ormai da qualche tempo ha smarrito tutti i fondamenti basilari della democrazia liberale e si fa portatrice di una cultura totalitaria”.