Sono 524 le realtà tra volontariato e associazionismo, a cui vengono affidati i beni confiscati alla mafia. La maggior parte si trovano tra Lombardia, Sicilia, Campania e Calabria e svolgono attività di sostegno alle persone con disagio sociale e promuovono azioni culturali e sportive. Passa ancora molto tempo prima che il bene venga affidato e allora nel 69% dei casi prima che si arrivi al riutilizzo passano circa 10 anni e il bene si trova già in cattivo stato. Sono questi i dati contenuti nel dossier ‘BeneItalia. Economia, welfare, cultura, etica: la generazione di valori nell’uso sociale dei beni confiscati alle mafie‘ elaborato da Libera e dalla Fondazione Charlemagne Italia, presentato a Roma, alla Casa del Jazz. Sono passati 20 anni dalla elaborazione della legge per l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie grazie alla raccolta firme promossa da Libera. Da allora i beni si sono trasformati in ricchezza per i territori grazie ad un sistema di welfare volontario e pulito, che significa lavoro, accoglienza per le persone fragili, formazione ed impegno per i giovani. Gli immobili diventano così delle sedi operative, abitazioni a disposizione di persone in situazioni di disagio o magazzini. Secondo i dati dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati aggiornati a febbraio di quest’anno, citati in ‘Beneitalia’, sono 19.157 i beni immobili confiscati, in piu’ ci sono 2.876 aziende, di cui 4 all’estero. Di queste aziende, 830 sono gia’ state destinate.
Mafia: fatta uccidere dal padre-boss, depositati verbali pentito - "Rosalia, con la quale ho avuto un rapporto di affetto, era nata per la liberta' ed e' morta per la sua liberta'. Mio fratello mi ha riferito che il padre di Lia (il boss mafioso Antonino Pipitone) aveva deciso la punizione della donna perche' non voleva essere criticato per questa situazione incresciosa". Sono le rivelazioni del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo su Rosalia, Lia, Pipitone, uccisa a Palermo il 23 settembre 1983 dopo una sparatoria seguita ad una rapina, messa in scena proprio per eliminare la una "ragazza madre" troppo moderna. Di Carlo e' stato sentito dalla Dda di Palermo che ha depositato i verbali nel corso dell'udienza preliminare nella quale si sono costituiti parte civile il marito e il figlio di Lia Pipitone, Gero e Alessio Cordaro, con l'assistenza dell'avvocato Nino Caleca. Parte civile anche la Millecolori onlus, rappresentata dall'avvocato Roberto Riggio, dello studio legale Lauricella. Per questo procedimento oggi sono imputati i boss Nino Madonia e Vincenzo Galatolo. Le indagini sono ripartite dopo la pubblicazione del libro "Se muoio sopravvivimi", scritto dal giornalista Salvo Palazzolo con Alessio Cordaro, figlio di Lia Pipitone. A meta' degli anni duemila, infatti, era finito in carcere Antonino Pipitone, padre della donna (allora ventiquattrenne), poi assolto per mancanza di riscontri alle accuse dei pentiti. L'uomo, nel frattempo, e' morto. "Secondo la regola di Cosa nostra - ha raccontato il pentito al pm Francesco Del Bene - Nino Madonia ha convocato Nino Pipitone al quale ha comunicato la decisione di risolvere il problema eliminando la figlia, circostanza a cui il padre non si e' sottratto nel rispetto della mentalita' di Cosa nostra". Sempre secondo Di Carlo, "Madonia ha convocato Vincenzo Galatolo al quale ha affidato l'esecuzione materiale dell'omicidio. Il delitto e' stato consumato mediante la messa in scena, in quanto era evidente che i rapinatori non avevano alcun interesse a uccidere una persona che stava parlando al telefono da una cabina". Ulteriore precisazione sulla messa in scena: "Che tale decisione provenga da Cosa nostra - ha messo a verbale Francesco Di Carlo - e' confermata dalla circostanza che nessun intervento e' stato realizzato per individuare i rapinatori che avevano ucciso la figlia di un importante esponente di Cosa nostra". (AGI)