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19/12/2016 06:05:00

Trattativa, la Procura di Palermo ricorre in appello contro l'assoluzione di Mannino

 "La sentenza impugnata, ad una prima analisi generale, appare percorsa da un singolare furore demolitorio". Lo scrive la Procura di Palermo definendo le motivazioni della sentenza con cui è stato assolto Calogero Mannino, imputato di minaccia a corpo politico dello Stato nella tranche in abbreviato del processo Sato-mafia. L'appello della Procura, alla sentenza pronunciata dal gup Marina Petruzzella, è stato depositato e  vistato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e porta le firme del procuratore aggiunto Vittorio Teresi, dei pm Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene. La sentenza per la procura "è tesa non soltanto alla analisi della posizione dell'imputato, delle sue condotte e del suo apporto causale nella determinazione dell'evento posto a base del capo di imputazione, ma sostanzialmente determinato a smantellare la ricostruzione dei fatti prospettati dall'accusa con argomentazioni spesso prive di reale motivazione e, perciò, apodittiche".

Nel ricorso in appello presentato contro la sentenza di assoluzione di Calogero Mannino, al processo in abbreviato sulla trattativa Stato-mafia, i pm hanno passato in rassegna diverse criticità che erano presenti nelle motivazioni del giudice di primo grado.
Secondo i magistrati il Gup Marina Petruzzella non è stato in grado di dimostrare "mediante un percorso motivazionale logico, consequenziale e coerente, per quali ragioni l’imputato sia stato assolto dalla imputazione ascrittagli”. Inoltre ritengono che “la grave sottovalutazione di taluni (numerosi) fatti significativi, la totale assenza di valutazione di altri fatti, la lettura e la valutazione armonica di tutti questi elementi di prova, avrebbero imposto una conclusione diversa del presente processo”.

Riprendendo la parte in cui si valutano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, di cui il giudice sottolinea la progressione nel corso degli anni, i pm sottolineano che questa "può valere al più per i riferimenti a Mancino e Dell’Utri (fatti dopo il 2001), ma non certo per le questioni della trattativa con i Carabinieri e del ‘papello’, di cui Brusca ha parlato praticamente da subito (fin dai suoi verbali del 96/97), costringendo Mori e De Donno alle prime e parziali ammissioni su questo tema (tema che, prima di Brusca, i predetti non avevano mai rivelato, né in dichiarazioni, né in relazioni di servizio o atti documentali)”.
Per quanto riguarda le “ammissioni dello stesso Brusca circa talune ricostruzioni dei fatti narrati, che gli sarebbero state suggerite dalla lettura di notizie di stampa o dall’ascolto di dirette radiofoniche delle deposizioni altrui”, secondo i pm una tale considerazione “appare del tutto fuorviante", in quanto il collaboratore "non ha mai fornito come notizie a sua conoscenza quelle che egli apprendeva dagli organi di stampa o da altre fonti esterne, ma si è semplicemente (e correttamente) limitato a dire che tali notizie esterne, apprese da varie fonti nel corso degli anni della sua collaborazione, gli avevano offerto le chiavi di lettura per comprendere le vere ragioni del determinarsi di certi fatti e di alcuni episodi, che già egli aveva raccontato e dei quali, però, al momento delle dichiarazioni, non aveva compreso a fondo i motivi e le dinamiche realmente sottesi”.
I pm hanno contestato “l’inevitabile condizionamento mentale" del pentito Giovanni Brusca che, a dire del giudice, avrebbe subito a causa di un “eccesso di interrogatori” e di un “martellamento, sempre sugli stessi episodi". "Scompare - dicono i pm - qualsiasi accenno alla valutazione della credibilità e della attendibilità intrinseca ed estrinseca del dichiarante, che viene sostituita con una analisi psicologica del soggetto".