Più di una volta ci è capitato di raccontare delle storie di animali e di “animalisti” che forse avrebbero bisogno di una lettura che prescinda dalla solita contrapposizione tra idealizzazione e svalutazione che alla fine i media rischiano di veicolare, con gli immancabili commenti più o meno scomposti che spesso ne seguono sui social.
La Sicilia (ma non solo) ha spesso partorito singolari figure di eroici animalisti che in solitudine “salvano” i cani dall’indifferenza della gente e dalla sordità delle istituzioni. Figure che, anche dopo aver subito sequestri e a volte denunce per maltrattamento, spesso continuano ad occuparsi di animali, contando sull’acritico sostegno di chi non può (o non vuole) vedere al di là dei confini emotivi dei singoli casi di animali in difficoltà, ai quali comunque andrebbe dato un adeguato soccorso.
Quasi mai si considera che l’azione penale in sé, pur necessaria, non è affatto risolutiva. E che spesso queste eroiche figure salvatrici sono affette da un disturbo che si chiama Animal Hoarding.
Ne abbiamo parlato con la dottoressa Chiara Lignola, psicologa e psicoterapeuta cognitivo comportamentale, che si occupa di “Disturbo da Accumulo” e in particolare di “Accumulo di Animali” presso il relativo gruppo di ricerca dell’Associazione Italiana di Psicoterapia Cognitiva.
Ha curato il capitolo sull’ Animal Hoarding del manuale “Il Disturbo Da Accumulo” a cura di Francesco Mancini e Claudia Perdighe, Edito da Raffaello Cortina 2015 e svolge attività clinica presso il Centro Pandora di Lucca e Livorno.
La nostra redazione, nel corso di questi ultimi anni, si è spesso occupata di casi di abbandono e maltrattamento di animali. Quello che però ci ha colpito di più è che, quasi sempre, i soggetti coinvolti credono di aver salvato gli animali dalla strada e spesso (almeno fino a quando non si interviene con le denunce ed i sequestri) vengono percepiti dalla comunità come degli eroi che impiegano la loro vita per il bene degli animali. Come si fa a riconoscere l’accumulatore di animali?
L'aspetto più ingannevole dell’accumulo di animali sta proprio nel fatto che può essere scambiato per un profondo sentimento di amore per gli animali e non per un effettivo disturbo non solo dagli accumulatori stessi, ma anche dalla comunità di appartenenza. Ciò può contribuire a creare cicli interpersonali che rinforzano quello che è in realtà un pericoloso comportamento patologico, sia per l’ hoarder e sia per gli animali coinvolti. Chi accumula animali generalmente lo fa con intenzioni benevole (tranne alcuni casi descritti in letteratura come hoarder sfruttatori) e spesso all’interno delle comunità assume il ruolo di salvatore degli animali, immagine che rinforza il disturbo stesso attivando dei cicli interpersonali: l’accumulatore viene così contattato per tamponare o risolvere situazioni di abbandoni e stalli, si sente chiamato a rispondere coerentemente alla sua immagine di salvatore, aumentando così il numero di animali accumulati e la credenza stessa di avere questo mandato e missione che è il centro della sua esistenza.
Come riconoscerlo? Sicuramente gli aspetti più evidenti che saltano all’occhio sono gli standard di igiene e salute nel quale gli stessi animali vivono in spazi e condizioni non adeguate, la negazione o minimizzazione del problema unita al tentativo di continuare ad accumulare ulteriori animali.
Ci può descrivere le varie tipologie di accumulatori di animali? Si tratta di un disturbo che può presentarsi anche in comorbidità con altre patologie cliniche?
La letteratura in merito distingue tre tipologie principali di accumulatori di animali
I caregiver sopraffatti acquisiscono gli animali per lo più passivamente, li considerano membri della famiglia, fino a che non avviene un significativo cambiamento nella loro vita (come la morte di un consorte, l'inizio di problemi finanziari, un'improvvisa malattia o un altro evento grave) a causa del quale non riescono più a gestirli e a prendersene cura adeguatamente.
Una seconda tipologia sono gli hoarder soccorritori, ovvero gli accumulatori di animali motivati da una missione. È la categoria nella quale rientrano la maggior parte di coloro che presentano questo disturbo. Spinti dalla missione di salvarli dalla morte e dalla sofferenza, credono di essere gli unici a poter fornire loro cure adeguate e, per questo, cercano attivamente gli animali che ritengono bisognosi del loro aiuto. Anche loro, con il tempo e con l’accrescere del non riescono più a garantire le condizioni minime di benessere e finiscono per vivere, insieme a loro, in condizioni igienico-sanitarie precarie. Paradossalmente finiscono per causare ai loro animali gli stessi tipi di problemi e sofferenze che cercano di prevenire con la loro missione.
In ultimo Frost e Steketee propongono gli hoarder sfruttatori, caratterizzati da scarsa empatia verso i loro animali e indifferenza ai danni a loro causati. Appaiono come incapaci di provare senso di colpa, rimorso o avere una coscienza sociale. L'hoarder sfruttatore può vedere negli animali solo un mezzo per raggiungere un guadagno economico (tramite l'utilizzo delle risorse raccolte in nome delle operazioni di soccorso) oppure come un mezzo per soddisfare il suo bisogno di controllo sugli altri esseri viventi, credendosi superiore a tutti gli altri. Per entrambe le ragioni acquisisce gli animali attivamente.
A questa classificazione, Patronek, Loar e Nathanson (2006) aggiungono anche l’hoarder allevatore. Anche in questo caso gli animali aumentano numericamente e l'hoarder allevatore ha sempre più difficoltà a prendersene cura. Questo però non riduce l'attività di allevamento, nonostante le vendite siano minime per le cattive condizioni in cui versano. L’allevatore difficilmente tiene gli animali in casa e mostra solo una moderata consapevolezza del problema.
Non si hanno ancora sufficienti elementi per poter dare una panoramica sulla comorbidità, anche se gli autori riportano la compresenza di una vasta gamma di condizioni patologiche nei casi gravi registrati. La presenza di credenze bizzarre (“io so comunicare con gli animali”,“solo io posso salvarlo”, “gli animali mi scelgono”), le condizioni di degrado e la mancanza di consapevolezza, suggeriscono la presenza anche di altri disturbi mentali. Certo, l'individuazione di comorbidità con altre malattie psichiatriche, risulterebbe molto importante per la comprensione e il trattamento del disturbo stesso.
Che cosa c’è alla base del disturbo?
Non esiste ad oggi un modello unico che spieghi il disturbo. Secondo la letteratura possono avere un peso nella storia di vita di queste persone esperienze deficitarie di attaccamento con le figure genitoriali, dove la relazione con l’animale può svolgere la funzione di attaccamento compensatorio. Non tutti gli accumulatori di animali però hanno avuto esperienze deficitarie durante l’infanzia, alcuni hanno subito forti delusioni nelle relazioni adulte. Le relazioni con gli animali risultano per loro più appaganti sul piano affettiv e della fiducia.
E’ qualcosa di somigliante alle tossicodipendenze o al gioco d’azzardo patologico, per cui è difficile che si possa acquisire la consapevolezza di avere un problema?
Uno degli aspetti principali sta effettivamente proprio nel grado di consapevolezza. Generalmente queste persone hanno uno scarso insight, ovvero non sono realmente consapevoli del problema. I comportamenti, i valori, i sentimenti e i pensieri espressi dagli animal hoarder sono coerenti con la loro percezione di sé come figure assistenziali.
E’ vero che questi soggetti hanno una grande capacità di manipolazione, che li mantiene per lungo tempo “al sicuro” rispetto a riconoscimento della patologia?
Non la definirei capacità di manipolazione. Direi che cercano conferme alla loro convinzione, che è quella di agire per salvare gli animali. Ammettere di star invece contribuendo ad aumentare le loro sofferenze con il proprio comportamento, vorrebbe dire mettere in discussione interamente l’immagine di se stessi come salvatori degli animali. E quindi un’enorme sofferenza.
A volte sono gli stessi comuni che affidano loro un grande numero di animali, dietro compenso e senza tanti controlli. Quanto può nuocere all’intera comunità un approccio del genere?
Probabilmente queste sono scelte che variano da comune a comune. Sarebbero utili ovviamente controlli sulle caratteristiche dell’ambiente e sul numero massimo di animali presi in carico.
Che tipo di intervento può essere tentato per curare questo disturbo? E quale potrebbe essere il ruolo dei familiari o delle persone di riferimento del soggetto stesso?
Generalmente l’intervento prevede lo sgombero forzato dopo la segnalazione ad autorità competenti. Questo porta risultati temporanei in termini di igiene e salute degli animali, ma non risolve il problema a monte di queste persone. Anzi contribuisce al decorso ingravescente e alle recidive. Gli accumulatori risultano per lo più diffidenti e poco motivati al trattamento ed interventi imposti rinforzano questo atteggiamento: l’aiuto offerto diventa una minaccia per il rapporto con i loro amati animali.
L’intervento dovrebbe prevedere la presa in carico di uno psicoterapeuta che promuova la consapevolezza del problema mettendo in luce la discrepanza tra le buone intenzioni e l’esito delle proprie azioni e suggerendo modalità più adeguate e funzionali per poter aiutare gli animali bisognosi, tenendo presente i limiti oggettivi di tale scopo. In tutto questo i familiari giocano un ruolo nella richiesta di aiuto, nel mediare le relazioni tra accumulatore e vari operatori coinvolti. La loro posizione è spesso critica, soprattutto se condividono gli spazi con gli accumulatori.
Quale potrebbe essere invece il ruolo delle associazioni animaliste e dei cittadini in generale?
Nell’era dei social network è facile trovare pagine e bacheche invase da annunci riguardanti animali in difficoltà, condivisibili con un click. Ciò porta a stalli e staffette che fanno viaggiare animali da una parte all’altra dell’Italia. Se pur con intenzioni benevole e con tanti lieti fine, questo meccanismo produce un aumento del comportamento di accumulo in questi soggetti, sia direttamente tramite la risposta ad annunci e la presa in carico, sia indirettamente per gli affidi finiti male che poi finiscono all’accumulatore di zona.
Inoltre la categoria di hoarder descritti da Patronek, Loar e Nathanson) come “sfruttatori” possano speculare sul traffico di animali mascherato da azioni di volontariato, il tutto a discapito degli animali sottoposti a viaggi della speranza, staffette e condizioni di vita non adeguate alle loro necessità.
Certamente occorrerebbero maggiori controlli, affidi nel territorio, un numero limitato di animali da poter prendere in carico con determinati parametri sul piano dell’igiene, delle cure e degli ambienti necessari.
Egidio Morici