Avete sentito dell’affaire Tiramisù. Il dolce da dessert, con apposito decreto, è stato inserito tra i Prodotti agroalimentari tradizionali (Pet). Il Ministero delle politiche agricole ha provveduto così a chiarire una querelle che si stava trascinando da qualche anno: la paternità della ricetta spetta al Friuli Venezia Giulia. La questione va presa sul serio perché il governatore del Veneto Luca Zaia ha minacciato di impugnare il decreto. Zaia è piccato e credo sia sbagliato sottovalutare la serietà della questione. E’ inutile smontare per esempio il prodotto e sostenere che va bene sicuramente sarà nato in un luogo preciso ma i singoli elementi che lo compongono non sono di quel luogo. Il mascarpone è originario della Lombardia, qui infatti veniva una volta prodotto artigianalmente e solo nei mesi invernali. E che i savoiardi sono piemontesi, che il caffè chissà da dove viene, e figuratevi il cacao.
Nemmeno potete cavarvela dicendo che, va be’, tradizionale per modo di dire, in fondo le origini del dolce sono recenti, tra gli anni 50 e 70, quindi alla faccia dell’antica tradizione. Qui il problema è serio: i prodotti alimentari non sono più prodotti alimentari. Quando li mangi ti mangi una storia antica, spesso virata seppia. Gli antropologi lo dicono ogni volta: nei secoli alcuni cibi hanno assunto valori simbolici. Va bene, ma ora assistiamo a un’evoluzione del concetto di tipicità. Non c’è un politico che non lotti per il suo prodotto tipico, e quando lo trova non lo molla. Magari vai in giro e presenti un libro in un paese. Ma non c’è nessuno, sbuffi, maledici e l’organizzatore si scusa: “Stasera ci sono tre sagre”. Tre? Ma è un paese di mille abitanti. Sì, tre, una per ogni frazione, un prodotto tipico a testa.
Si fa presto a dire che il termine di tipicità è abusato. Cioè, sì d’accordo, gli aranci crescono rigogliosi in Sicilia e non in Lombardia. Ma non puoi dire: attenzione l’estensione del concetto “territoriale” è pericolosa. Ci sono tutta una serie di prodotti tipici per i quali non vi sono giustificazioni oggettive di nessun tipo. In Italia ne abbiamo 5118 e varie specialità regionali. 5118, un livello difficilmente giustificabile sulla base di reali differenze e specificità. Non solo di assessori paesani si tratta. La nostra politica agricola conta sul riconoscimento delle specifiche produzioni locali. Con quale criterio? I prodotti agricoli tipici sono la risposta adeguata alla complessità del mercato internazionale. Voi chiedete perché? Allora siete maligni. La tesi si fonda su due postulati: a) i prodotti tipici sono unici e qualitativamente superiori; b) i prodotti tipici danno un maggiore reddito ai produttori. Con questi due postulati (non dimostrati) le regioni spendono soldi per dimostrare la presenza di prodotti tipici nei rispettivi domini di riferimento. E vai con le brochure. Se chiedi: perché destinare tante risorse alla tutela di questi prodotti, con disciplinari di produzioni rigidissimi (di stampo creazionistico, cioè il prodotto non può essere modificato) anziché puntare al loro miglioramento qualitativo? Allora non hai capito l’andazzo: più passa il tempo più cresce il bisogno di cercare prodotti tipici nati e prodotti in pochi mq. Fate ironia sui mq? Avete mai letto la nota introduttiva al Cheese di Bra? Si dice, in sintesi, che il Parmigiano Reggiano è “autoctono”. Per far questo ci vogliono batteri “autoctoni”, cioè quelli nati nel territorio. Quindi, sempre in sintesi, siccome i nostri batteri sono sacri e non vogliamo batteri di importazione. E dai, non fate i sapientoni ora. Non mi dite che le dimensioni dei batteri sono molto ridotte e il loro universo può essere anche di pochi mm; non mi dite che il comprensorio non è omogeneo per temperature, piovosità, ecc; non mi interessa che i microrganismi non conoscono la geografia, quindi, per loro è difficile distinguere tra Mantova destra Po e Bologna sinistra Reno o viceversa, non me lo dite, perché io sempre di più voglio prodotti tipici e sacri. E insomma l’affaire tiramisù è solo l’inizio, e voglio proprio vedere come andrà a finire, con quali storie coloreremo il nostro futuro di tipicità, nostalgica e sacralità.
Antonio Pascale - Il Foglio