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03/11/2017 06:53:00

La Rai condannata a pagare il boss Graviano. Arriva la diffida

 Parte da Marsala (e cioè dallo studio legale dell’avvocato Francesco Vinci) la diffida, via pec, con cui la Rai viene “invitata” a pagare dopo essere stata condannata, lo scorso 16 febbraio, dal Tribunale civile di Roma a risarcire con 8 mila euro il capomafia palermitano Giuseppe Graviano per danno all'immagine, nonché a versare 3 mila euro, come compenso professionale, ai due legali del boss del quartiere Brancaccio. Ovvero, il marsalese Francesco Vinci e il trevigiano Federico Vianelli.

A distanza, infatti, di oltre otto mesi dalla sentenza, la Rai non ha ancora pagato. Pur non avendo chiesto una “sospensiva” dell’ordinanza, ma proposto soltanto appello (udienza fissata per il 28 ottobre 2020).

Adesso, pertanto, a causa del mancato versamento delle somme, gli avvocati Vinci e Vianelli hanno inviato una diffida alla Rai, che, se non pagherà entro 8 giorni, subirà l’azione di “recupero forzoso”. Il danno all’immagine è stato riconosciuto al boss stragista in quanto questi, l’8 marzo 2011, nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, a Roma, dove si era recata la Corte d’Assise di Palermo, non aveva prestato il consenso ad essere inquadrato nel confronto con Gaspare Spatuzza. Il presidente della Corte, dopo il “no” di Graviano ad essere inquadrato, aveva autorizzato le riprese in aula, senza però riprendere l’imputato. La stessa sera, però, nel corso di un servizio sull’udienza, la Tgr mostrò il viso di Graviano. Nel corso, poi, del giudizio davanti alla prima sezione del Tribunale civile di Roma (giudice Riccardo Rosetti), la Rai ha sostenuto di avere esercitato legittimamente il diritto di cronaca, considerato che si trattava di un importante processo di mafia e di una udienza in cui l’imputato veniva posto a confronto con uno dei suoi principali accusatori. Quindi “l’interesse pubblico sulla vicenda era di assoluto rilievo e tale da giustificare la pubblicazione dell’immagine di Graviano”. Il giudice Rosetti, però, non ha accolto questa tesi, richiamando nella sua sentenza che “l’articolo 147 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale”.